Corriere della Sera - La Lettura
Parigi, le donne e l’Io. Eppur funziona
Un poeta, Andrea Inglese, debutta con un romanzo che sfida i luoghi comuni. Lo scontro è tra il supereroe e il fallito che sono in noi e il risultato è godibilissimo
Andy sogna Parigi fin da piccolo, poi ci va come tutti a diciott’anni, poi ci torna, poi si innamora, prima di una donna, po idi un’altra (una storia durata nove anni e finita lungamente, dolorosamente, incredulamente), poi se ne va ma poi si rinnamora, sempre di una parigina, e allora ci ritorna da capo, e pare che le cose funzionino con la nuova donna (non del tutto nuova, in quanto è quella con cui aveva tradito l’altra dei nove anni) perché ci ha fatto una figlia e adesso vive lì (o quasi, in un sobborgo chic, ma in procinto di spostarsi in uno più acconcio). E con questo con la trama siamo a posto, e il lettore può gustarsi le più di trecento pagine di Parigi è un desiderio, primo romanzo di Andrea Inglese, classe 1967, uno dei poeti più apprezzati della sua generazione. L’essenziale è altrove, la vera trama è il corpo a corpo tra la mente e il mondo di Andy.
Mondo che Inglese ha scrupolosamente ridotto a pochi oggetti essenziali, contemplati però da una miriade di punti di vista successivi, sovrapposti, a volte giustapposti: Parigi, le donne e il proprio Io. Qui comincia la suspense: come farà a districarsi nel Mar dei Sargassi dei luoghi comuni che si stendono a perdita d’occhio sulle tre materie trattate? A cominciare dall’ultima, l’Io. Inglese è scrittore colto, la psicoanalisi lo ha informato che quello che riteniamo ingenuamente essere più nostro è in realtà il risultato di un miraggio, un inganno necessario, una formazione largamente immaginaria: un patto, se non col diavolo, con il fantasma. A differenza di quello che ha fatto in genere la letteratura novecentesca (e forse lui stesso quando scrive poesia), Inglese non assume una posizione iconoclasta: non denuncia l’idolo, non lo disdegna, non lo aggira per vedere cosa c’è dietro. Gli sta di fronte, invece. Lo ironizza ma lo lascia parlare, spiegarsi, deprecarsi (e spesso segretamente lodarsi), sbrodolarsi come soltanto l’Io sa fare. Gli altri oggetti non gli fanno resistenza, le donne amate non sono praticamente mai descritte, chi si aspettasse una guida sentimentale di Parigi resterebbe deluso. Il mondo è un teatro messo lì apposta per il suo dramma.
In che consiste questo dramma? Nel non sentirsi mai al proprio posto. Nel temere le abitudini. Nel diffidare di sé, baco che rode prima o poi tutte le situazioni, le relazioni, le sistemazioni. Nel bisogno spasmodico di appoggiarsi a quanto di più diverso il mondo può offrirti, l’altro sesso: non sono una donna, scrive, ecco perché dipendo così tanto da loro. Riempiendo pagine e pagine di elucubrazioni, accampandosi sulla scena come un primattore che fosse per lui non lascerebbe neanche una battuta ai comprimari, l’Io si svela come mancanza, si dà a vedere per tale. Senza intenzione, si potrebbe dire, da parte di Andy (che non fa che dire al lettore: ehi tu, fatti i fatti miei). Con piena consapevolezza, invece, da parte di Inglese.
Il risultato è godibilissimo, e sarebbe un peccato ridurlo alla pur azzeccata esemplarità sociologica del protagonista narratore: i maschi della sua generazione, si sa, sono tutti un po’ così… Che poca cosa. La vera riuscita, io credo, sta invece nel mostrare come si sia condannati a convivere — e come si possa sopravvivere — con quel mostriciattolo pretenzioso e lagnoso, perché sempre inevitabilmente e giustamente frustrato, che è appunto l’ Io,d iv ertendosi perfino — nella scrittura, beninteso, perché eccettuato il lieto fine a Andy la vita non gira bene quasi mai. Scrittura che ha un passo schiettamente saggistico (nel senso alto, migliore, di Montaigne), dove l’aneddoto non è mai lasciato solo dal commento: esaminiamo un po’ questo buffo soggetto. Se si è saggi si può sorridere perfino dei dolori. Scopo del saggio non è diffondere un sapere ma sollecitare una saggezza.
Non a caso al centro del libro c’è una sezione dedicata alla lettura di un quadro, La liberazione di Andromeda di Piero di Cosimo, che fa collegamento iperspaziale tra il mondo di Andy (che ne teneva una riproduzione nel bagno della casa in cui viveva con la donna dei nove anni, chiamata appunto Andromeda) e quello di Inglese (che ha pubblicato anni fa un testo molto sperimentale, misto di prosa e versi, intitolato Commiato da Andromeda, sinopia del romanzo che abbiamo sotto gli occhi). Lettura ossessionata e invadente, va da sé: è Andy che parla, e in quel quadro ci si deve ficcare a ogni costo. È Perseo, l’eroe liberatore che uccide il mostro e salva la fanciulla perseguitata (nella vita, Andromeda e la sua melanconia)? O non è invece il mostro, l’informe, l’intruso, l’escluso, l’espulso, descritto con una delicatezza e una tenerezza straordinarie nelle pagine più belle del romanzo? In questa oscillazione tra le due figure dell’Io, il supereroe e lo sconfitto per definizione, quella fallica e quella fallita, è la chiave di volta dell’opera.
Resterebbe da dire del finale. Ho riflettuto a lungo se gli attagliasse l’aggettivo: consolatorio. Credo di no, alla resa dei conti; piuttosto un sospiro di sollievo per la fine di un lungo, troppo lungo apprendistato. Rispecchiandosi nella figlia appena nata, Andy trova finalmente un limite alle pretese dell’Io: non è a lui che appartiene il futuro, non è eterno, un giorno morirà. Ora può mettere via lo specchio, e gioire del mondo che c’è.