Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo è pieno di posti: scriveteli
Andrea Cortellessa ha raccolto venti voci contemporanee che si confrontano con i territori e la loro realtà. Superando l’attenzione novecentesca all’interiorità e gli arabeschi della post-modernità
Questo non è un libro «a tesi» ma un libro che nasce intorno a una precisa ipotesi di ricerca, per proporre nuove idee sulla rappresentazione dello spazio in letteratura. Pochissimi critici oggi in Italia potrebbero pensare di riunire una ventina di autori per verificare con loro e sulla loro scrittura la validità di un discorso condiviso. Tra questi c’è Andrea Cortellessa, uno dei pochi che si possa ancora definire critico militante, capace non solo di orientarsi nell’enorme produzione letteraria contemporanea ma anche di orientarla, richiamando intorno a un tema comune le voci selezionate in un panorama editoriale sempre più difficile da interpretare. In operazioni come queste il critico non è soltanto il curatore che sceglie e introduce materiale altrui ma piuttosto un autore aggiunto agli autori, con i quali, non per caso, alla fine di ognuno dei venti testi che formano il libro, Cortellessa intesse un dialogo che serve a chiarire le ragioni, le tecniche, la poetica del testo in questione.
La domanda fondamentale dell’antologia Con gli occhi aperti, che ribalta il titolo di un’opera importante del nostro primo Novecento ( Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi), è questa: è ancora possibile scoprire i luoghi? Quesito per niente scontato, se si tiene conto, come scrive Cortellessa nell’introduzione, che il Novecento ha dato per due volte una risposta negativa. La prima agli albori del secolo: è l’atteggiamento di Tozzi, che chiude gli occhi di fronte al reale e, «archiviato il mondo esterno», si rivolge allo spazio dell’anima, cioè alla «vita interiore della psiche e degli affetti». La seconda con il postmoderno, quando la «superficie visibile del mondo» torna a essere importante ma con un tale sovraccarico di riferimenti culturali e iconografici da sembrare sempre già vista, mai liberamente fruibile: risultato di un’estetica solo apparentemente superficiale, che presenta invece la realtà come un ipertesto grondante citazioni, pieno di post-it appiccicati e di cassetti virtuali da aprire.
La via d’uscita da questa doppia impasse, osserva Cortellessa, in Italia l’ha indicata Gianni Celati, rimettendo se stesso non tanto di fronte ma in mezzo ai luoghi, attraversati a piedi, sentiti col corpo, «patiti» affettivamente. Lo scritto in cui Celati racconta la sua lenta, attonita deriva attraverso la pianura padana verso il Delta del Po, intitolato Verso la foce (1984), segna in- portante, che tiene uniti i diversi autori nel loro approccio a luoghi che vanno da Gardaland (Emmanuela Carbé) a Lagos (Trevisan), dalla cristallizzazione petrarchesca di Vaucluse (Andrea Gibellini) al Sudamerica di Valerio Magrelli (sulle tracce di Campana), è la gestione dell’immaginario culturale che dei luoghi tende a consegnare, come dice Cortellessa, una «pre-visione», e talvolta anche uno stereotipo.
Il difficile, lo scriveva già Zanzotto nella sua celebre prosa Venezia, forse, è proprio liberare gli occhi dalla selva citazionistica che predetermina le nostre conoscenze e i nostri percorsi mentali. A questo proposito almeno tre testi, oltre a quello di Magrelli, vanno segnalati per la capacità mostrata dai loro autori di interagire con luoghi carichi di memorie culturali senza restare intrappolati nel reticolo allusivo: quello di Antonella Anedda sull’isola greca di Lesbo, luogo di culto per la poesia lirica occidentale e di drammatico approdo per i flussi di migranti; quello di Filippo Tuena, Donne di Vienna, costruito su un fine gioco di rimandi a immagini e musiche, soprattutto dal Terzo uomo di Carol Reed; quello, infine, di Emanuele Trevi, Anche noi in Arcadia, che è parso il pezzo più coinvolgente della raccolta. Originata dalla rilettura di un libro di viaggio di Emilio Cecchi, la prosa autobiografica di Trevi — uscita la prima volta su «Alias» — racconta il viaggio iniziatico di due adolescenti che scappano di casa per raggiungere la Grecia, muniti solo di un esile bagaglio di cultura personale, e appunto del volume di Emilio Cecchi, Et in Arcadia ego. Pensando di dover viaggiare «da una cartolina all’altra», i due ragazzi non si aspettavano di ritrovare i simboli della «bellezza greca» immersi nella prosaicità del quotidiano; il nucleo emotivo del testo di Trevi è proprio in questo divario tra i due piani dell’immaginazione e della realtà, o meglio di come essi siano sorprendentemente venuti a coincidere, attraverso l’esperienza di un viaggio illuminato dalla lettura di Cecchi.