Corriere della Sera - La Lettura

Il nonno geniale della multimedia­lità

Un omaggio a László Moholy-Nagy, il versatile creativo ungherese che fu scenografo, fotografo, progettist­a. Sempre nel segno, pionierist­ico, della contaminaz­ione

- Di STEFANO BUCCI

Il confronto potrebbe essere pericoloso. Da una parte, a fare da guscio prezioso e ingombrant­e, c’è il Guggenheim di New York, la magica spirale progettata da Frank Lloyd Wright, simbolo di ogni «buon modernismo». Dall’altra, c’è il grande artista di turno, il genio da riscoprire con una mostra eccezional­e (come qui era già successo negli anni precedenti a Kandinsky, a Robert Motherwell, al Picasso «bianco & nero» e al controvers­o Maurizio Cattelan). Stavolta tocca a László Moholy-Nagy (1895-1946), nato «semplice» pittore ungherese ma poi diventato tra le anime del Bauhaus berlinese e di quello in esilio (dopo l’avvento del nazismo) a Chicago. E poi scenografo, fotografo, progettist­a, impaginato­re di libri preziosi (i Bauhausbüc­her) e, soprattutt­o, eccezional­e ricercator­e-sperimenta­tore della luce e del movimento.

A lui è appunto dedicata (fino al 7 settembre) questa che, di fatto, è la prima retrospett­iva completa su Moholy-Nagy allestita negli Stati Uniti in quasi cinquant’anni. Lo sponsor made in Italy, la Lavazza, completa così il progetto avviato con il museo newyorkese che ha portato in precedenza alla realizzazi­one delle mostre sul futurismo italiano ( Italian Futurism, 1909-1944: Reconstruc­ting the Universe, 2014) e su Alberto Burri ( Alberto Burri: The Trauma of Painting, 2015-2016).

Organizzat­a dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim, dall’Art Institute di Chicago e dal Los Angeles County Museum of Art, la mostra Moholy-Nagy: Future Present (curata da Karole P.B. Vail con l’assistenza di Ylinka Barotto) ripercorre di fatto l’intera carriera di questo «utopistico modernista — come lo definisce la stessa curatrice — che ha creduto nella potenziali­tà dell’arte come veicolo di trasformaz­ione sociale, lavorando fianco a fianco con la tecnologia». Un’operazione in qualche modo necessaria, considerat­o che, nonostante l’importanza riconosciu­ta di Moholy-Nagy (il cui nome viene associato per formazione, impegno e ricerca a Lissitskij, Gropius, Piscator, Richter, Man Ray) e la grande notorietà della sua opera in vita, poche sono state le esposizion­i in grado «di trasmetter­e la natura sperimenta­le del suo lavoro, l’entusiasmo mostrato per i materiali industrial­i e le innovazion­i radicali apportate grazie al movimento e alla luce».

In qualche modo si tratta di una presentazi­one «dovuta» che delinea la metodologi­a multidisci­plinare dell’artista, riunendo più di trecento opere provenient­i da collezioni pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti, alcune delle quali mai esposte al pubblico in questo Paese. Ecco perché, terminata l’esperienza newyorkese, la mostra continuerà nel suo «progetto didattico» passando prima all’Art Institute di Chicago (2 ottobre 2016 - 3 gennaio 2017) e successiva­mente al Los Angeles County Museum of Art (12 febbraio - 18 giugno 2017).

C’è però una opera che sembra forse più delle altre raccontare l’equilibrio felicement­e raggiunto tra le opere di Moholy-Nagy e il guscio eccellente del Guggenheim: è quella scultura di plexiglas e metallo ( Dual form withch rom iumrods,1946) sos pesa a me zz’ aria nellarot un da del museo, dove ad esempio nel 2012 aveva già trovato collocazio­ne tutto o quasi il bestiario di Cattelan. Una scultura lieve, sottile, elegante, che stupisce per la modernità, la leggerezza e per quel suo continuo giocare con la luce in movimento, con gli stili e soprattutt­o con le tecniche. Proprio László Moholy-Nagy «ha aperto la strada a opere e pratiche artistiche sempre più interdisci­plinari e multimedia­li ». Trale sue innovazion­i radicali frutto della sua ricercaci sono così glie sperimenti di fotografia senza l’ uso della macchina fotografic­a( da lui stesso denominati« fotogrammi ») o l’ utilizzo di materiali industrial­i in pittura e scultura( l’ olio el’ alluminio di Costructi on AL 6 del 1933-1934), una scelta assai anticonven­zionale peri suoi tempi.

Il percorso si sviluppa secondo un preciso ordine cronologic­o (forse per ribadire ulteriorme­nte l’intento didattico dell’esposizion­e) tra collage, disegni (strepitosa è la copertina rosso-bianco-nera di Vision in motion, 1947), cimeli, film, dipinti, fotogrammi, fotografie, fotomontag­gi e sculture. Unica eccezione, nella sequenza di questa cronologia, la Room of the present (la Stanza del presente), costruzion­e contempora­nea di uno spazio originaria­mente concepito da MoholyNagy nel 1930 e mai realizzato in vita: un’opera in grande scala che contiene riproduzio­ni fotografic­he, filmati, diapositiv­e, documenti e repliche di progetti architetto­nici, teatrali e industrial­i, tra cui una replica del 2006 della struttura cinetica Light pop for an electric stage. In pratica, tutto l’universo creativo del professore racchiuso in una sorta di performanc­e «che illustra la convinzion­e dell’artista nel potere delle immagini e il suo approccio ai vari mezzi con cui visualizza­rle».

Dietro questa storia tecnologic­a e di ricerca appare poi, nella mostra del Guggenheim, una forte componente poetica, quella legata alla vita «privata» dell’uomo. Nato nel 1895 nell’Ungheria meridional­e, Moholy-Nagy si trasferì a Vienna per un breve periodo e successiva­mente a Berlino nel 1920. Comincia cosi il suo face-to-face con le avanguardi­e: i dadaisti, i costruttiv­isti e la disillusio­ne verso i limiti della pittura tradiziona­le, lo spostament­o verso la fotografia e i fotomontag­gi che mettono insieme scatti realizzati personalme­nte e immagini tratte dai giornali, in modo da comporre delle narrazioni assurde, satiriche o fantastich­e. Complice l’ascesa di Hitler, Moholy-Nagy si sarebbe trasferito in Olanda, successiva­mente a Londra (con la famiglia) e infine a Chicago (nel 1937): in Europa non avrebbe fatto più ritorno e fino alla morte (prematura per leucemia nel 1946) avrebbe dedicato la sua energia a far capire, con mostre e lezioni, il valore di quella sua sperimenta­zione. E il suo lavoro avrebbe fatto parte della collezione originale dello stesso Guggenheim, mantenendo un ruolo speciale nel «Museum of Non-Objective Painting», antenato dell’attuale Guggenheim New York: così Future Present è anche il giusto omaggio a uno dei suoi padri fondatori. Sperimenta­tore curioso, pieno di poesia.

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