Corriere della Sera - La Lettura
Il nonno geniale della multimedialità
Un omaggio a László Moholy-Nagy, il versatile creativo ungherese che fu scenografo, fotografo, progettista. Sempre nel segno, pionieristico, della contaminazione
Il confronto potrebbe essere pericoloso. Da una parte, a fare da guscio prezioso e ingombrante, c’è il Guggenheim di New York, la magica spirale progettata da Frank Lloyd Wright, simbolo di ogni «buon modernismo». Dall’altra, c’è il grande artista di turno, il genio da riscoprire con una mostra eccezionale (come qui era già successo negli anni precedenti a Kandinsky, a Robert Motherwell, al Picasso «bianco & nero» e al controverso Maurizio Cattelan). Stavolta tocca a László Moholy-Nagy (1895-1946), nato «semplice» pittore ungherese ma poi diventato tra le anime del Bauhaus berlinese e di quello in esilio (dopo l’avvento del nazismo) a Chicago. E poi scenografo, fotografo, progettista, impaginatore di libri preziosi (i Bauhausbücher) e, soprattutto, eccezionale ricercatore-sperimentatore della luce e del movimento.
A lui è appunto dedicata (fino al 7 settembre) questa che, di fatto, è la prima retrospettiva completa su Moholy-Nagy allestita negli Stati Uniti in quasi cinquant’anni. Lo sponsor made in Italy, la Lavazza, completa così il progetto avviato con il museo newyorkese che ha portato in precedenza alla realizzazione delle mostre sul futurismo italiano ( Italian Futurism, 1909-1944: Reconstructing the Universe, 2014) e su Alberto Burri ( Alberto Burri: The Trauma of Painting, 2015-2016).
Organizzata dalla Fondazione Solomon R. Guggenheim, dall’Art Institute di Chicago e dal Los Angeles County Museum of Art, la mostra Moholy-Nagy: Future Present (curata da Karole P.B. Vail con l’assistenza di Ylinka Barotto) ripercorre di fatto l’intera carriera di questo «utopistico modernista — come lo definisce la stessa curatrice — che ha creduto nella potenzialità dell’arte come veicolo di trasformazione sociale, lavorando fianco a fianco con la tecnologia». Un’operazione in qualche modo necessaria, considerato che, nonostante l’importanza riconosciuta di Moholy-Nagy (il cui nome viene associato per formazione, impegno e ricerca a Lissitskij, Gropius, Piscator, Richter, Man Ray) e la grande notorietà della sua opera in vita, poche sono state le esposizioni in grado «di trasmettere la natura sperimentale del suo lavoro, l’entusiasmo mostrato per i materiali industriali e le innovazioni radicali apportate grazie al movimento e alla luce».
In qualche modo si tratta di una presentazione «dovuta» che delinea la metodologia multidisciplinare dell’artista, riunendo più di trecento opere provenienti da collezioni pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti, alcune delle quali mai esposte al pubblico in questo Paese. Ecco perché, terminata l’esperienza newyorkese, la mostra continuerà nel suo «progetto didattico» passando prima all’Art Institute di Chicago (2 ottobre 2016 - 3 gennaio 2017) e successivamente al Los Angeles County Museum of Art (12 febbraio - 18 giugno 2017).
C’è però una opera che sembra forse più delle altre raccontare l’equilibrio felicemente raggiunto tra le opere di Moholy-Nagy e il guscio eccellente del Guggenheim: è quella scultura di plexiglas e metallo ( Dual form withch rom iumrods,1946) sos pesa a me zz’ aria nellarot un da del museo, dove ad esempio nel 2012 aveva già trovato collocazione tutto o quasi il bestiario di Cattelan. Una scultura lieve, sottile, elegante, che stupisce per la modernità, la leggerezza e per quel suo continuo giocare con la luce in movimento, con gli stili e soprattutto con le tecniche. Proprio László Moholy-Nagy «ha aperto la strada a opere e pratiche artistiche sempre più interdisciplinari e multimediali ». Trale sue innovazioni radicali frutto della sua ricercaci sono così glie sperimenti di fotografia senza l’ uso della macchina fotografica( da lui stesso denominati« fotogrammi ») o l’ utilizzo di materiali industriali in pittura e scultura( l’ olio el’ alluminio di Costructi on AL 6 del 1933-1934), una scelta assai anticonvenzionale peri suoi tempi.
Il percorso si sviluppa secondo un preciso ordine cronologico (forse per ribadire ulteriormente l’intento didattico dell’esposizione) tra collage, disegni (strepitosa è la copertina rosso-bianco-nera di Vision in motion, 1947), cimeli, film, dipinti, fotogrammi, fotografie, fotomontaggi e sculture. Unica eccezione, nella sequenza di questa cronologia, la Room of the present (la Stanza del presente), costruzione contemporanea di uno spazio originariamente concepito da MoholyNagy nel 1930 e mai realizzato in vita: un’opera in grande scala che contiene riproduzioni fotografiche, filmati, diapositive, documenti e repliche di progetti architettonici, teatrali e industriali, tra cui una replica del 2006 della struttura cinetica Light pop for an electric stage. In pratica, tutto l’universo creativo del professore racchiuso in una sorta di performance «che illustra la convinzione dell’artista nel potere delle immagini e il suo approccio ai vari mezzi con cui visualizzarle».
Dietro questa storia tecnologica e di ricerca appare poi, nella mostra del Guggenheim, una forte componente poetica, quella legata alla vita «privata» dell’uomo. Nato nel 1895 nell’Ungheria meridionale, Moholy-Nagy si trasferì a Vienna per un breve periodo e successivamente a Berlino nel 1920. Comincia cosi il suo face-to-face con le avanguardie: i dadaisti, i costruttivisti e la disillusione verso i limiti della pittura tradizionale, lo spostamento verso la fotografia e i fotomontaggi che mettono insieme scatti realizzati personalmente e immagini tratte dai giornali, in modo da comporre delle narrazioni assurde, satiriche o fantastiche. Complice l’ascesa di Hitler, Moholy-Nagy si sarebbe trasferito in Olanda, successivamente a Londra (con la famiglia) e infine a Chicago (nel 1937): in Europa non avrebbe fatto più ritorno e fino alla morte (prematura per leucemia nel 1946) avrebbe dedicato la sua energia a far capire, con mostre e lezioni, il valore di quella sua sperimentazione. E il suo lavoro avrebbe fatto parte della collezione originale dello stesso Guggenheim, mantenendo un ruolo speciale nel «Museum of Non-Objective Painting», antenato dell’attuale Guggenheim New York: così Future Present è anche il giusto omaggio a uno dei suoi padri fondatori. Sperimentatore curioso, pieno di poesia.