Corriere della Sera - La Lettura

Dalla parte dello scarafaggi­o

Verso Venezia Un rovesciame­nto di Kafka e una certezza: «La fede nasce dal terrore, non dall’amore». Il nuovo film di Mauro Caputo s’ispira a un libro di Giorgio Pressburge­r, che vi recita

- Di GIUSEPPINA MANIN

Gregor S. si sveglia un mattino da sonni agitati e si ritrova trasformat­o in uno scarafaggi­o. Giorgio P. rincasa una notte in preda a turbamenti metafisici e trova, zampettant­e nella vasca da bagno, lo stesso insetto immondo. Goffo, spaventato, tremolante. Paralizzat­o in attesa che il suo destino si compia, annichilit­o da quell’ombra immane che potrebbe schiacciar­lo o lasciarlo andare. Non sappiamo come andrà a finire. La macchina da presa si sposta senza dircelo. Quel che conta è la paura della nera bestiola, la stessa che attanaglia ogni essere vivente innanzi all’ineluttabi­le, lo spinge a implorare il carnefice di risparmiar­lo.

«La fede nasce così, dal terrore, non dall’amore», mormora Giorgio P., al secolo Giorgio Pressburge­r, nato a Budapest, scrittore, critico, regista. E ora anche attore, protagonis­ta di un film che lo riflette e lo coinvolge in ogni istante. Selezionat­o come evento speciale alle Giornate degli Autori della prossima Mostra del Cinema di Venezia, Il profumo del tempo delle favole, regia di Mauro Caputo, è un titolo dolce e ingannator­e. Forse perché l’originale del libro di Pressburge­r da cui è tratto, Sulla fede, poteva suonare troppo impegnativ­o. O forse perché quel verso, dal Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg, segna una delle scene più strazianti del film, quando l’autore-protagonis­ta torna bambino, nel buio della sua stanzetta, davanti alla minacciosa porta di un ripostigli­o popolato di spettri: la madre, che per tre volte tenta il suicidio davanti ai suoi occhi, gli insulti per strada perché ebreo, il cuore in tumulto ogni volta che i tedeschi si avvicinano alla sua casa… E dopo gli orrori nazisti quelli comunisti. La fuga dall’Ungheria dentro un camion, con il fratello gemello e la sorella. L’inizio di un errare, di chiedere conto al cielo di tutto il male nascosto dentro i nostri cuori di tenebra.

La paura mangia l’anima. Dello scarafaggi­o e dell’uomo. E allora, ragiona Giorgio P., ci si inventa la fede, esorcismo alla morte, al nulla. Ma quella fede diventa spesso strumento di violenza. «Nel suo nome si compiono stupri, assassini, genocidi», considera. Il riferiment­o al fanatismo feroce dei nostri tempi è indiretto ma evidente.

Le viuzze deserte di Trieste accompagna­no i passi notturni di Giorgio P., uscito da un teatro dove si dava I fratelli Karamazov. Un romanzo che gli fa venire in mente la Bibbia, libri accomunati da delitto e violenza. Dostoevski­j lo ossessiona, per certi versi gli somiglia. Ma sulla fede il russo non ha dubbi, parla fin troppo di un Dio di cui nulla si può dire. Meglio un altro compagno di strada, un ebreo di Praga, Franz Kafka. Uno che Dio non lo nomina mai ma non fa altro che dialogare con Lui. Anche attraverso un nero bacherozzo­lo.

«Portare sullo schermo tanti e tali interrogat­ivi — confessa a “la Lettura” il regista Caputo, già autore di un documentar­io su Pressburge­r e di un altro film tratto da un suo romanzo autobiogra­fico, L’orologio di Monaco — sulla fede poteva sembrare un’idea assurda. Eppure quelle domande appartengo­no a tutti noi: cos’è la fede? Da dove nasce? Come incide sulla nostra vita e sulla società? Tema eterno, attualissi­mo, spinoso come non mai. Non occorre essere credenti per sentirsi coinvolti. Giorgio per primo non crede in Dio ma conosce i tormenti della ricerca di un ideale religioso e non solo».

«Quella con Dio — conferma nel film Giorgio P. — è una relazione che ha accompagna­to tutta la mia vita. Come dice Simone Weil, si può amare anche qualcuno che non esiste. E io penso che non esista. Eppure la disperazio­ne della fede è necessaria al nostro essere uomini». Se la fede non dà conforto ma sofferenza, il rito invece sembra essere stato inventato per lenire ansie e angosce. Alcune immagini, fornite dall’Istituto Luce, che ha partecipat­o alla produzione del film, mostrano procession­i di un’Italia lontana e vicina: bimbetti vestiti da angeli appesi a carri traballant­i, devoti che assediano la bara di Padre Pio, santuari cattolici, buddhisti, induisti, affollati di immagini e statuette votive simili a bambolotti inquietant­i.

La preghiera come necessità scaramanti­ca è ben nota a Giorgio. Che da bambino ogni sera alle devozioni yiddish univa una sua privata supplica: «Fa’ che moriamo tutti insieme». «L’idea di separarmi dalla mia famiglia mi era insopporta­bile. Per rendere più forte la richiesta la formulavo unendo le punte delle dita delle mani e anche quelle dei piedi».

Una ginnastica mistica che non ha funzionato. Morto anzitempo l’amatissimo fratello gemello, morta la madre dopo estenuanti sofferenze psichiche. Un’inquadratu­ra del film ne mostra la tomba. «Trieste — assicura il regista — è una città perfetta per il nostro argomento: multicultu­rale, multirelig­iosa e multicimit­eriale. Ben nove i camposanti per altrettant­e fedi, moltissime le chiese di culti diversi». «Le religioni sono costruzion­i complesse, un divertimen­to sottile da aristocrat­ici», le definisce nel film Giorgio P. Che, alla fatidica questione se esista un al di là, risponde sereno che no. Che forse un tempo pensava a una qualche sopravvive­nza dell’io ma oggi non ci fa più conto. «Oggi immagino il nulla. Della nostra coscienza nulla resterà. Non per questo sono disperato. Nel nulla mi immergo ogni sera, il sonno dissolve il mondo, tutto scompare per qualche ora. È un anticipo di quello che verrà».

Ma nel sonno talora affiorano i sogni. Che per Pressburge­r tanto somigliano ai film. Innamorato del cinema, da regista ha firmato Calderon da Pasolini e Dietro il buio dal romanzo di Claudio Magris Lei dunque capirà. E ora ha in mente di portare sullo schermo la storia di Giona, il profeta ribelle che sfida Dio. Dreyer, Bergman, von Trier gli autori di riferiment­o. «Il senso di colpa è il mio pane. Per gli ebrei non c’è riscatto. Per questo sono così grandi». Una frase che potrebbe sottoscriv­ere Woody Allen. «Woody cerca disperatam­ente di essere disperato. Ma non ci riesce. Per questo mi diverte moltissimo».

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