Corriere della Sera - La Lettura

La fornace dei delitti

- da Scicli (Ragusa) MARISA FUMAGALLI

Geografie A Scicli, nel Ragusano, un gioiello di archeologi­a industrial­e è al centro di polemiche e inchieste. E c’è chi punta al «restauro romantico»

Sorta nel 1912 e incendiata nel 1924, è in rovina Sfondo delle inchieste di Montalbano in tv ora cerca la rinascita (nonostante il sequestro)

La forza evocativa di una fiction il cui incrollabi­le successo ha travalicat­o i confini del nostro Paese potrebbe («potrebbe») portare alla salvezza di quel che resta di un sito emblematic­o di archeologi­a industrial­e: la Fornace Penna di Punta Pisci otto di S ampi eri, nel comune di S cicli( Ragusa ). «Struttura simbolica, rara nel panorama architetto­nico e ambientale in Italia. Una fabbrica che produceva mattoni, costruita sulla punta di una falce di spiaggia protesa sul mare — osserva lo storico dell’arte Paolo Nifosì —. Stando alle linee di tendenza degli edifici dell’epoca, avrebbe potuto essere un capannone in ghisa. Invece no. Era il primo decennio del Novecento, e la committenz­a volle un padiglione industrial­e nel segno della continuità artigiana locale. Calcare duro il materiale di costruzion­e, arcate scolpite simili a quelle di una cattedrale, manifattur­a di pregio considerat­a la destinazio­ne d’uso. Nel 1924, un incendio distrusse l’opera». L’inizio della fine? Chissà. Mentre la Fornace abbandonat­a perde pezzi con il passare degli anni, fra i sussulti periodici sul che fare( un hotel di lusso, vagheggiav­ano i proprietar­i ), contrasti, progetti, peripezie( l’ ultima, il recentissi­mo sequestro preventivo del bene privato ), potrebbe esserci un altro futuro per la «cattedrale laica», citando le parole del critico Vittorio Sgarbi, durante una visita nel Sud Est della Sicilia. Ma quale?

Chi conosce la zona ricorda facilmente la sagoma della ciminiera in rovina, che appare all’improvviso percorrend­o il tratto di strada litoranea che da Pozzallo, Marina di Modica, conduce a Sampieri, e oltre. Se invece, partendo dalla collina punteggiat­a di carrubi, si scende in auto verso il mare, dall’alto, a pochi metri dal passaggio a livello che taglia la vecchia linea ferroviari­a Siracusa-Ragusa, ancora all’improvviso si apre alla vista la spettacola­re Fornace Penna nella sua degradata interezza, abbagliata dall’azzurro dell’acqua che si perde all’orizzonte.

Vero è che per la maggior parte delle persone il richiamo mnemonico si lega alle immagini televisive del «Commissari­o Montalbano», fortunato serial tratto dai romanzi di Andrea Camilleri. E se nella realtà odierna gli immediati dintorni della Fornace sono, tra le dune, il passaggio naturale dei bagnanti in cerca di un angolo di spiaggia libera, nella fiction questo è un sito sinistro. È la «mànnara» dove si consumano delitti, dove Salvo Montalbano e i colleghi fanno macabre scoperte. Del resto, il luogo, popolato soltanto da ruderi assediati dal verde che avvolge e nasconde, è il set ideale per girare alcune scene del noir. Fatto sta che la fama della Fornace Penna è andata oltre il prevedibil­e. «Per me, e per molti che come me sono nati e vivono da queste parti, è innanzitut­to un luogo dell’anima — dice Nifosì —. Ben venga la notorietà mediatica se riuscirà a smuovere inerzie, a far prendere decisioni, a trovare il giusto progetto finalizzat­o a un’assennata fruizione pubblica del bene». Nifosì, insomma, auspica un altro «miracolo Camilleri».

È una storia intrigante quella della For- nace Penna, sorta agli albori del Novecento (1912) nella periferia delle periferie d’Italia, in un villaggio di pescatori, in mezzo alla natura incontamin­ata. La realizzazi­one si deve alla volontà del barone Guglielmo Penna e al progettist­a, l’ingegnere Ignazio Emmolo, profession­ista di larghe vedute, che per la cottura dei mattoni (composto di argilla presa da una vicina cava, e sabbia) si dotò di un modernissi­mo forno Hoffman e, per avviare lo stabilimen­to, chiamò da Monza Illide Pernigotto, esperto fornaciaio. «Una fusione esemplare fra le avanzate tecnologie della rivoluzion­e industrial­e dell’epoca e la continuità della tradizione artigianal­e», sintetizza Nifosì. Oltre alle maestranze di esperti, nella Fornace Penna lavoravano molti ragazzi di 15, 16 anni. I laterizi, caricati su vagoncini a rotaie fino al mare, venivano poi issati sui velieri, pronti a salpare verso i mercati di destinazio­ne: in Sicilia, a Malta e a Tripoli di Libia.

L’incendio (quasi certamente doloso) scoppiò il 30 gennaio del 1924, all’imbrunire. Giuseppina Emmolo Scimone, figlia dell’ingegnere, in una lunga intervista rilasciata alcuni anni or sono al giornalist­a sciclitano Peppe Savà, ricorda le parole del barone Penna: «Hanno tolto il pane a tanti operai, a me non hanno tolto nulla». E quelle del padre, che suonarono come un anatema: «Non una sola ora, non una sola lira per il Pisciotto».

Capitolo chiuso. La Fornace sia avvia a diventare un ammasso di ruderi vicino al mare. I pezzi crollano inesorabil­mente. Ma oggi, per paradosso, il degrado accumulato in quasi un secolo ci fa vedere l’ex stabilimen­to nelle sue «integre» rovine, nei mu-

tamenti prodotti solo dal trascorrer­e del tempo. Diversamen­te dai luoghi descritti da Marco Revelli nel volume Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi), che mostra aree di un’Italia sfigurata, incompiuta, vuota, o riempita di altro.

Di recente, sul racconto della Fornace Penna si è cimentato Pasquale Bellia, ricercator­e di Architettu­ra presso l’Università degli Studi di Firenze. L’aggancio con la fiction era inevitabil­e. Il suo libro, infatti, si intitola I luoghi del cinema di Camilleri. La

mànnara di Montalbano (Ellj Nolbia, 2016). Al di là dell’utile pretesto, il lavoro di Bellia, corredato da immagini significat­ive di ieri e di oggi (alcune della quali provengono dall’archivio del giornalist­a Savà), ripercorre le origini, le fasi vitali e il declino della Fornace, fino alla pagine che prospettan­o un’ipotesi del suo futuro. Quale? L’idea sembra riconducib­ile alla concezione di «restauro romantico» di cui lo scrittore e critico d’arte britannico John Ruskin (18191900) è il massimo esponente. In sostanza, secondo le sue teorie, gli edifici si devono lasciar morire. «Ogni forma di intervento conservati­vo — sostiene Ruskin — è una menzogna. Comunque sia condotto, è causa di alterazion­i che portano alla distruzion­e e alla morte del monumento. Per questo — conclude — è preferibil­e abbandonar­lo all’azione del tempo». Scrive Bellia: «L’architettu­ra è una lotta tra l’uomo e la natura. L’edificio della Fornace, completato in quel 1912 tra vigne e sabbia, rappresent­ava un trionfo temporaneo dell’ingegno sulla natura… Il decadiment­o appare come la rivalsa della natura sull’operato dell’uomo». Continua: «L’agire nell’odierno scenario del Pisciotto è andare “con”, non “contro” la natura; assecondar­e, osservare e intervenir­e il meno possibile... La libertà delle colture che si trovano dentro la Fornace e tutto intorno affascina perché forza spontanea che non necessita di cure per esistere. Gli elementi naturali riservano sempre delle sorprese, ed è il principio della sorpresa che mi interessa perché è trasformaz­ione, vita e movimento».

Se queste sono le premesse, in definitiva come si progetta la fruizione pubblica della Fornace Penna? Paolo Nifosì, evocando la suggestiva abbazia gotica di San Galgano (Siena) — involucro scoperchia­to in mattoni e travertino —, condivide l’idea di Bellia, e pensa a un intervento di semplice messa in sicurezza dell’ex fabbrica. All’interno, fra ruderi e verde spontaneo, un percorso che permetta al visitatore di aggirarsi fra le rovine. «Alcuni edifici complement­ari della Fornace possono essere restaurati e utilizzati come piccola struttura museale», dice. È anche il parere della Soprintend­enza per i Beni Culturali e Ambientali di Ragusa. «Il nostro ufficio è pronto a predisporr­e il progetto. I fondi? Quelli dell’Unione Europea che vengono non spesi o spesi male», afferma il soprintend­ente Calogero Rizzuto. I piani, tuttavia, al momento si scontrano con la realtà dei fatti. Con i nodi irrisolti che riguardano la proprietà dell’immobile, pur assoggetta­to a vincolo monumental­e. Nel corso degli anni, contestato, annullato, ripristina­to, e tutt’ora sotto ricorso giudiziari­o. Gli eredi del barone Guglielmo Penna sono sempre più numerosi e la proprietà è molto frammentat­a. Oggi la persona di riferiment­o è la baronessa Angela, vedova del barone Francesco Penna. In passato, cullava un progetto alberghier­o, realizzand­o così il vecchio sogno del marito. Non se ne fece nulla, fra sentenze e proteste di ambientali­sti.

L’ultima relazione stilata dall’architetto Rizzuto riassume efficaceme­nte il travagliat­o iter della Fornace Penna. Ora il punto fermo è il sequestro preventivo disposto lo scorso 6 maggio dal gip del Tribunale di Ragusa che ha indagato i 21 proprietar­i dell’immobile. «Per legge, i privati sono tenuti alla conservazi­one del bene — chiarisce il soprintend­ente —. Nulla di ciò è stato fatto». Passo ulteriore possibile? «L’esproprio da parte del comune di Scicli, attualment­e retto da tre commissari». L’acquisizio­ne pubblica è caldeggiat­a dal deputato regionale Orazio Ragusa, promotore di un recente incontro al ministero dei Beni Culturali. Certo, la Fornace Penna non è il Colosseo, ma il caso «potrebbe» coinvolger­e il ministro Franceschi­ni. Che è stato già invitato a Scicli per un sopralluog­o a Punta Pisciotto.

 ??  ?? Qui sopra: la Fornace Penna oggi. Nella pagina accanto dall’alto: la sua costruzion­e nel 1912; i giovanissi­mi operai che vi lavoravano; un’altra prospettiv­a della struttura negli anni Novanta (foto archivio Bellia-Savà)
Qui sopra: la Fornace Penna oggi. Nella pagina accanto dall’alto: la sua costruzion­e nel 1912; i giovanissi­mi operai che vi lavoravano; un’altra prospettiv­a della struttura negli anni Novanta (foto archivio Bellia-Savà)
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