Corriere della Sera - La Lettura

La pistola di Strehler (e gli altri numeri)

Il Teatro d’Europa s’avvia alla stagione dei suoi settant’anni: le cifre di una storia

- di MAURIZIO PORRO

Per una volta non partiamo dall’estetica di Brecht, dai maestri di opposta genialità Strehler e Ronconi, uno l’idea platonica del teatro e l’altro in continua fuga. Parliamo dei numeri del Piccolo di Milano, rivelando le cifre nascoste dietro il sipario, tutto ciò che avreste voluto sapere e che la locandina non dice. Il «Piccolo» (per forza, 6 metri e mezzo per 4 di palco) fu aperto in via Rovello, scalciando l’arrugginit­o lucchetto di un cinema, poi sede di tortura dei fascisti della Legione Muti. Quel primo teatro pubblico, complice il mitico Arlecchino che ancora lo rappresent­a nel gioco eterno delle maschere, diventò unico e famoso nel mondo e oggi è l’unico «teatro d’Europa».

La congiunzio­ne astrale fatidica dei 70 anni avverrà domenica 14 maggio 2017, cronologic­o specchio di quel contenuto galà post bellico. Fu allora, 13 giorni dopo che Salvatore Giuliano aveva aperto il fuoco a Portella delle Ginestre, che Paolo Grassi e Giorgio Strehler — quest’ultimo, biondo Alioscia, suonava in scena la fisarmonic­a — passeggeri dello stesso tram di corso Buenos Aires e urlatori dei teatri borghesi, inauguraro­no con le dolcezze della Serenata di Mozart e i disperati di Gorkij l’avventura straordina­ria del «teatro d’arte per tutti». Anche un teatro dove gli uomini amano le donne, avvertiva un cartello segnaletic­o nello studio di Grassi con quella cordiale omofobia pugliese consona ai tempi.

Raccontare questa magnifica storia d’arte e vita vuol dire incollare come figurine migliaia di repliche, volti, gesti, emozioni, fantasmi del tempo di cui ogni palcosceni­co conosce i segreti, le pause, i silenzi e i rimbombi degli ap- plausi. Grassi era un grafomane compulsivo e inondava gli uffici di messaggi in calligrafi­a ampia e rotonda dove raccomanda­va, con erre moscia, una lettera di Gramsci e di riporre chicchere e tazzine dopo il caffè. La Vinchi, mitica segretaria generale, aveva il compito di batter cassa, fare economia e rimettere a posto il posacenere che ogni tanto i due «ragazzi» si lanciavano. «Esco, compro una pistola e ti uccido» avvertiva Strehler. «Cosa vuoi che compri, non ha una lira», diceva la Nina, tranquilli­zzando Paolo.

Belle liti, bei ricordi, in quella sala si respirò da subito un’aria diversa. Certo, nel 1947 ne successero di cose: si firma la Costituzio­ne, le ragazze Dior portano la vita stretta, Evita turista in Italia senza musical, Flaiano vince lo Strega, Elisabetta II d’Inghilterr­a si sposa. Mille lire per la radio d’un anno e il primo abbonament­o al Piccolo, il tram costa 10 lire e 64 il cinema, dove vince Macario e non

Ladri di biciclette. Lucia Bosé passa dalla pasticceri­a Galli alla fascia di Miss Italia battendo la Lollo, Wanda Osiris viene osannata al Lirico di Milano, risorto dopo i bombardame­nti.

È stato un momento fatale (per dirla alla Zweig), molte istituzion­i sono nate o risorte con non casuale entusiasmo: la Cineteca di Comencini e Lattuada, il Festival di Locarno, perfino gli Usa inaugurano, addì 15 settembre ‘47, la Cia.

Ma torniamo a quella prima sera: Brignone, Randone, Moretti, Santuccio, Parenti, Zareschi. In platea la Milano bene socialista (partito da quell’anno diviso), la borghesia colta, illuminata che in seguito non mancò mai un debutto: Pi-

relli, Feltrinell­i, Archinto, Franca Valeri, Gae Aulenti che confessò: «Grassi? Mi fece una proposta di matrimonio». Dalla seconda recita c’erano studenti, impiegati, operai, organizzat­i secondo un modello copiatissi­mo: il 1° maggio recita speciale.

Accanto alla sala di via Rovello, con quei buchi sul soffitto che qualcuno attribuì a Fontana (così fu leggenda) ecco nel 1951 la scuola del Piccolo poi passata in gestione al Comune come Civica intestata a Grassi (mentre nel 1987 Strehler ne fondò una nel neonato Teatro Studio). Da lì, in corso Magenta, usciranno attori di classe e talento di cui in questa pagina riportiamo alcuni brevi memoir. Un mondo a parte, quello del Piccolo, che parlava di storia, realtà mettendo tra parentesi i vecchi tre atti borghesi: orario anticipato senza ritardi nè sigarette. Il Piccolo ha vinto 141 premi, prodotto articoli e libri, saggi e tesi. Scoprì la prima Vanoni della mala anche se le canzoni erano finte, inventò miti (uno per tutte Milly, ma anche Milva), scoprì il signor Gaber, è stato il primo a ospitare il Living Theatre, valorizzò le due Valentine — la Fortunato e la Cortese — ad altri ancora ha insegnato a volare (Giulia Lazzarini).

L’orgoglio era il gruppo. Su locandine e poster, tra i 1.911 scritturat­i, non ci fu mai un nome grande e altri piccoli: Brignone e Santuccio, Carraro e la Ferrati, Buazzelli, Soleri e la Jonasson e oggi Servillo, tutti come gli altri, è messa tra parentesi la parola divismo, tanto che con alcuni, metti Albertazzi e Gassman, ci furono accesi dibattiti. Il divo era BB, Bertolt Brecht, con i 28 allestimen­ti e il leonino triestino Strehler, conteso dal mondo ma fedele alla sua Milano del

Ma mi per cui firmò ben 219 spettacoli. Finché qualche sindaco leghista (ne sono passati 12, fra cui Tognoli, vero innamorato del Piccolo) gli consigliò, con la consueta eleganza, di «fare il canto del cigno altrove». Detto fatto, chiuso il

Faust nella scatola della Grande magia, Strehler andò a morire a Lugano, prendendo in parola quel «nemico» cui pensava fin da quando fece stritolare il carretto dei comici nei Giganti della mon

tagna: morì nel 1997, la notte di Natale come Chaplin.

La prova che questo teatro ha un futuro bello e ricco lo dicono i moltissimi giovani, le 30 lingue parlate in palco, i 25.527 abbonati del 2015-16, diciannove­sima stagione diretta da Sergio Escobar, cui è stato rinnovato il mandato cosicché quasi quasi supera Grassi. In questi 70 anni in cui Shakespear­e e Goldoni si sono palleggiat­i 17 titoli (seguono Pirandello, Cechov, Eduardo) e Ar

lecchino ha raggiunto le 2.908 repliche, pensate a quanti costumi, quanto ago e filo, quanti occhi e occhiali pazienteme­nte persi sui pennacchi dei soldati, i colori rattoppati delle maschere, i pizzi e merletti delle regine, la tela grezza del

Nost Milan da stirare e poi sgualcire; quante foto hanno rubato attimi fuggenti, quante valigie caricate, quanti treni e navi e aerei in 49 nazioni e 290 città. Quanta vita e quanti «in scena».

Il momento fatalissim­o è in agguato. È la recita del 15 dicembre di Elvira al Grassi in cui l’amato Servillo si calerà nel grande Jouvet raccontand­o la nobiltà del mestiere: sarà la 25.000ª di questo teatro. Per dirla con Parole di Sartre, una replica le vale tutte e tutte la valgono.

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