Corriere della Sera - La Lettura
Berger rilegge i maestri: una nuova storia dell’arte
Lo scrittore rilegge i classici della pittura con occhi non accademici ma nomadi, pronti a scarti inaspettati Il Novecento dialoga con l’antico, gli aspetti laterali diventano centrali. Uno sguardo che siamo invitati a condividere
Ilibri di storia dell’arte? Talvolta troppo specialistici, appesantiti da analisi puntuali ma eccessivamente filologiche. E i saggi dei critici? Nella maggior parte dei casi, oscuri, caratterizzati da un linguaggio involuto, da suggestioni filosofiche appena orecchiate, poco attenti al confronto con le opere. Un’alternativa a questi approcci potrebbe essere costituita dagli scritti di John Berger, molti dei quali radunati in Portraits. Un volume che ci auguriamo venga presto tradotto e adottato nelle università. Non un’antologia di testi episodici ma una sorta di involontaria e mossa cartografia dell’arte, dai ritratti del Fayyum a Basquiat, passando per Piero della Francesca, Michelangelo, Bosch, Velázquez, Turner, Monet, van Gogh, Picasso, Giacometti, Bacon e Twombly. Vi convergono grandi modelli: Vasari, Baudelaire, Benjamin.
Berger reinventa con originalità il genere classico, di matrice vasariana, delle vite degli artisti: si concentra sulla dimensione biografica di pittori e scultori. E, abile nel sottrarsi a ogni inciampo teorico, sulle orme della lezione baudelairiana, estrae i suoi giudizi estetici dalle sculture e dai quadri con i quali si misura. Ancora: in consonanza con Walter Benjamin, tende a non indugiare mai sul centro delle opere.
Non è un critico d’arte di mestiere ma uno scrittore irregolare e poliedrico, difficile da catalogare, autore di libri inafferrabili. Di fronte a un dipinto, a una scultura o a una fotografia, non si serve mai di un approccio «istituzionale». Con le immagini, avvia un dialogo appassionato, privato: se ne fa sedurre; le indaga da vicino; le interroga; le pensa come se nessuno prima avesse provato a decifrarle. Si sofferma su quello che non si manifesta subito a uno spettatore distratto. Sapiente nell’intrecciare intuizione impressionistica, talento letterario e azzardo interpretativo, sviluppa audaci «forme di attenzione». Frequenta soprattutto i dettagli minimi. Predilige i lapsus stilistici, le pieghe segrete, gli aspetti imprevisti. Berger evita di ripetere il già detto. Guarda l’arte con un occhio vergine, non contaminato da sovrastrutture culturali e ideologiche. I riferimenti storici, per lui, sono come fondali sui quali articola una drammaturgia narrativa melodiosa, ritmica, piana, che però, d’incanto, sembra accendersi.
Quest’irrequieto flâneur preferisce trascrivere quello che l’occhio ha colto, con digressioni e divagazioni. La sua strategia ermeneutica si fonda su movimenti centrifughi, che lo portano ad allontanarsi dai suoi oggetti di analisi. Egli sembra smarrirsi, deragliare. Ci conduce dove non siamo mai stati, suggerendo così analogie inesplorate e corrispondenze ignote. A volte le sue letture potrebbero apparire «scorrette», eppure spesso riescono a svelarci inattesi squarci di senso. Una qualità poco presente nella maggior parte dei contributi «accademici». In alcuni passaggi Berger istituisce dialoghi tra episodi lontani. Come quando stabilisce relazioni tra le profezie atroci di Bosch e l’iconografia proposta dai media. O come quando collega le figurazioni della Cappella Sistina di Michelangelo e le fotografie delle miniere di Salgado. O anche come quando accosta Bacon non a Goya né ad Ejzenštejn ma a Disney, perché entrambi «fanno asserzioni sul comportamento alienato delle società».
Per cogliere il senso di questo inconfondibile metodo critico lirico, potremmo richiamarci a un breve elogio di Esopo. Un ritratto che è soprattutto un autoritratto: «Esopo osserva, guarda, riconosce, ascolta quel che ha intorno ed è esterno a lui, e allo stesso tempo riflette dentro di sé, sistemando (…) quel che ha percepito, sforzandosi di trovare un senso che vada al di là dei cinque sensi con cui è venuto al mondo».