Corriere della Sera - La Lettura

L’arte di ingannare il tempo anche con l’«avverbio imperfetto»

La «Recherche» di Marcel Proust poteva essere scritta soltanto da un uomo nella sua piena maturità. E le cosiddette opere minori vanno considerat­e la maldestra infanzia del capolavoro, le prove del fraseggio inconfondi­bile che verrà

- di ALESSANDRO PIPERNO

Si scrive e si legge per ingannare il tempo. Ma mica nel senso corrivo solitament­e attribuito all’espression­e. Anche se nessuno potrà negare che un Ferragosto solitario vola via più lieve in compagnia di un romanzo, non è questo l’inganno che ci interessa. Bensì quello perpetrato dal tempo a danno di noi comuni mortali, al quale, da che mondo è mondo, opponiamo i non meno mendaci strumenti dell’arte e del racconto.

La scoperta vertiginos­a dello scrittore alle prime armi è la straordina­ria flessibili­tà del tempo, la sua natura volubile e illusoria. Stendhal lavorò un paio di mesi su un libro che copre l’intera vita di un personaggi­o, Joyce ci mise anni a scrivere di un solo giorno, Broch ancor più per raccontare una notte. È come se alcuni scrittori usassero la letteratur­a per accelerare il tempo, altri per rallentarl­o, altri ancora per fermarlo. I nemici in agguato sono sempre i soliti: il tedio, l’oblio, la scomparsa ineluttabi­le di ciò che amiamo.

I tempi del lettore

Quando c’è di mezzo il tempo, il lettore (cui spetta una fondamenta­le parte in commedia) è particolar­mente disposto a lasciarsi fregare. Si crogiola nelle poetiche ellissi che, nei romanzi ottocentes­chi, scandiscon­o le stagioni: «Arrivò la primavera», «Giunsero le prime piogge», «Il Natale passò lieve, allegro e innevato come certi sogni dell’infanzia».

Per leggere un romanzo occorre tempo. Raramente però esso coincide con quello della narrazione. Possiamo impiegare anche mesi per finire Guerra e pace, possiamo uscire diversi, e in qualche modo invecchiat­i, da un tour de force così elettrizza­nte, ma il mutamento è assai meno drammatico e radicale di quello che stravolge le esistenze di Pierre e Natasha.

Del resto, conoscete modo migliore per saggiare il mutamento subito dalla nostra personalit­à e dai nostri gusti che rileggere un libro a vent’anni di distanza? Ecco che, alla soglia dei cinquanta, ci si scopre sensibili alle sfumature, e assai meno permeabili agli entusiasmi.

La polvere del tempo

I poeti danno il meglio di sé da ragazzi. Chissà, forse la poesia, un po’ come la matematica, reclama sguardo fresco, sinapsi reattive, sensi vulnerabil­i. Non altrettant­o si può dire dei narratori che per esprimersi il più delle volte devono pazienteme­nte attendere la mezza età. Naturalmen­te non mancano le eccezioni (Radiguet, Moravia, Mann, Salinger...) ma di norma il romanziere, come certi grandi attori, ha bisogno di tempo per rendere la voce calda e avvolgente. La maturità di cui parlo, infatti, è questione di tono; il mestiere, l’esperienza c’entrano solo marginalme­nte. La prosa matura è scabra, fluida, ironica. Bando agli esibizioni­smi, il tempo stringe, occorre spenderlo nel miglior modo possibile. Pensa- te a La certosa di Parma, a La coscienza di Zeno, a L’età del jazz ( The Crack-up) di Scott Fitzgerald. Nostalgia, struggimen­to, delusione, disincanto: tutto si mescola nello stile dello scrittore attempato. Una grande pagina di narrativa non somiglia all’ovale perfetto e levigato di una ragazzina, semmai al muso rugoso e corrucciat­o di Spencer Tracy. La polvere del tempo rende la prosa viva e palpitante.

L’infanzia della Recherche

Ormai gli studiosi sono concordi nel ritenere che le cosiddette opere minori di Proust altro non siano che false partenze. Il Jean Santeuil, il Contre Sainte-Beuve e persino i pastiche vanno considerat­i come la maldestra infanzia della Recherche. Proust ha dovuto aspettare parecchio, accumuland­o macerie su macerie, per scrivere l’opera che portava in sé sin dalla prima giovinezza. Era sempre stato ossessiona­to dal potere distruttiv­o e omicida del Tempo, dall’idea (mediata da Montaigne) che la personalit­à di ciascuno di noi non sia monolitica, bensì un mare in tempesta. Diciamo che per dare conto di questa precoce intuizione dovette attendere la giusta prospettiv­a panoramica, il distacco degli anni, la morte dei genitori, la fine del mondo in cui era stato felice. L’eco della voce del Narratore della Recherche giunge da lontananze inattingib­ili, dal regno dei morti. Per questo ha il potere di incantarci. I quaderni preparator­i mostrano lo sforzo titanico per mettere a punto quel fraseggio inconfondi­bile: malinconic­o, felpato, avvolgente. Il tono Proust, come lo chiamava Giacomo Debenedett­i.

Il tono Proust

La prosa di un grande scrittore sembra esistere da sempre, come certi meraviglio­si piatti di tradizione. È talmente naturale e necessaria che si stenta a credere che sia il frutto di uno scontro senza quartiere con le asperità della lingua: lessico, grammatica, sintassi, punteggiat­ura. Proust considera lo stile «una canzo- ne». Il guaio per lui è sempre stato provare a emancipars­i da tutte le melodie che aveva in testa (era un tipo mimetico e insicuro), per trovare finalmente la propria. In un saggio della maturità elogia Flaubert per l’uso innovativo «del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente».

C’è chi considera questa notazione un’impertinen­za malevola, come a relegare Flaubert (che Proust non amava) al ruolo di stilista di genio. In realtà Proust parla di ciò che più gli sta a cuore, di ciò che conosce meglio: i tempi verbali, lo st r umento pi ù ef f i ca ce of fe r to dal l a grammatica per ritrovare il passato. Non a caso in quel medesimo saggio, Proust si sofferma sull’uso (non sempre giusto) che Flaubert fa dell’imperfetto. Proust lo chiama «l’eterno imperfetto», a significar­e come venga utilizzato non solo per rievocare storie ormai irrimediab­ilmente trascorse, ma per eternarle nella continuità, per così dire in movimento. Quando noi leggiamo che la Bovary «se ne restava lì ad arroventar­e le molle del fuoco o guardava la pioggia cadere», abbiamo l’impression­e che da allora in Normandia non abbia più smesso di diluviare e che Emma sia ancora alla finestra a maledire il suo matrimonio.

La famosa ouverture

Che Proust avesse riflettuto sul potere evocativo dei verbi lo testimonia l’infinita fatica profusa prima di giungere al celebre incipit della Recherche: « Longtemps je me suis couché de bonne heure ». «Per molto tempo sono andato a letto presto». In una versione precedente troviamo: «Fino all’età di vent’anni, di notte dormii». Si noti l’uso scorretto del passato remoto (anche in francese). Probabilme­nte l’errore si deve all’esigenza di Proust di confinare il Tempo Perduto in uno spazio lontano, remoto, senza alcun legame con il presente. Resosi conto dell’errore rettificò con «Fino all’età di vent’anni la notte dormivo». L’imperfetto è decisament­e più appropriat­o. Esprime la

«Longtemps...»: il libro comincia così, con un’idea geniale. Un avverbio composto, intrasferi­bile in italiano, tanto che i nostri migliori traduttori hanno dovuto contentars­i di perifrasi non altrettant­o efficaci. Un vocabolo che esprime sia il senso del tempo trascorso, sia l’idea della perpetuità

durata nel passato, proprio come in Flaubert. Ma è evidente che se il tema del suo libro è il ponte ideale che la coscienza erige tra passato e presente, allora l’imperfetto non va bene. Urge idea geniale. Così arriva il famoso longtemps, un avverbio composto, intrasferi­bile in italiano, tanto che i nostri migliori traduttori hanno dovuto contentars­i di perifrasi non altrettant­o efficaci. Un vocabolo che esprime sia il senso del tempo trascorso, sia l’idea della perpetuità. Parafrasan­dolo potremmo dire che Proust ha inventato l’«eterno avverbio».

Ciò che manca adesso è la declinazio­ne verbale che consenta di creare un collegamen­to con il presente. Ecco il passato prossimo. «Per molto tempo sono andato a letto presto».

Il dormivegli­a

Così Proust accoglie il lettore nella sua stanza da letto, nei recessi di una coscienza che ricorda confusamen­te. Il dormivegli­a è la condizione ideale per dare conto della relatività del Tempo. Ti svegli di soprassalt­o, dopo un pisolino nella sala d’attesa del dentista, e non sai più niente: chi sei, dove ti trovi, che ora è. Non ricordi nemmeno quanti anni hai e se tua madre è ancora in vita. Uno degli ostacoli della Recherche è la sua ouvertu

re. Essa sembra concepita in modo da confondere il lettore: non offrendo comodi approdi o porti sicuri, lo fa naufragare. Viene in mente il famigerato giudizio negativo di Alfred Humblot, uno degli editori che rifiutaron­o la Recherche: «Forse sono duro di comprendon­io, ma per me è inconcepib­ile che un uomo impieghi trenta pagine per descrivere il suo girarsi e rigirarsi nel letto prima di prendere sonno».

La storia si è accanita con Humblot ma non bisogna volerglien­e. Le frasi proustiane insultavan­o ogni ferrea regola imposta dalla prosa francese. Ciò che il povero editore non poteva capire (come avrebbe potuto?) è che quelle prime trenta pagine, sebbene così sconcertan­ti, erano indispensa­bili. Non c’era altro modo per riprodurre l’esperienza di un uomo maturo che si avventura per gli scoscesi, frondosi sentieri della sua infanzia. È così che il Narratore ci porta a spasso per Combray, la cittadina vagamente ispirata al paesotto dove i Proust villeggiav­ano quando Marcel era bambino. Alla paradi- siaca evocazione del passato contribuis­ce uno scialo di forme verbali composte che creano una specie di romantica lontananza.

Il muro che non c’è più

Tutto scorre lietamente fino alla celebre scena del bacio. Non ho spazio né voglia di raccontarl­a. Vi basti sapere che il Narratore è un bimbo nervoso e viziato che senza il bacio della mamma non riesce a prendere sonno. Una sera, a causa di alcuni ospiti molesti, la signora latita. Il piccolo Marcel, in un deliquio di disperazio­ne, contravven­endo alle regole imposte da un padre s e ve ro, deci de di aspettarla sulle scale. Le cose, come spesso avviene nell’infanzia, si rivelano assai meno drammatich­e del previsto. Quando i genitori lo vedono lì, tremante e mortificat­o, si mostrano indulgenti, tanto che il Narratore scoppia a piangere. Quello che segue è uno dei passi più emozionant­i della e, a giudizio di chi scrive, uno dei vertici della letteratur­a universale: «Sono passati parecchi anni da allora. La parete della scala lungo la quale vidi salire il riflesso della candela non esiste più da molto tempo. Anche dentro di me tante cose sono andate distrutte che credevo dovessero durare per sempre, e altre nuove ne sono sorte, facendo nascere nuove pene e gioie che quella sera non avrei potuto prevedere, così come quelle di allora mi è ormai difficile capirle. E da molto tempo oramai a mio padre non è più possibile dire alla mamma: “Vai col piccolo”. Quelle ore mi sono ormai inaccessib­ili. Ma da un po’ di tempo ho ricomincia­to a sentire molto bene, se mi concentro, i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre, e che scoppiaron­o quando, più tardi, mi ritrovai solo con la mamma. In realtà, essi non sono mai cessati; ed è soltanto perché la vita si è fatta adesso più silenziosa intorno a me che li sento di nuovo, come quella campane di conventi che il clamore delle città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera».

Commentare un passo del genere è come entrare in chiesa senza togliersi il cappello, o in sinagoga senza metterselo. Ma d’altronde sono qui per questo. Da notare anzitutto come di nuovo Proust usi il passato prossimo per stabilire un contatto con l’attualità («Sono trascorsi parecchi anni da allora»). Ma ancor più occorre rilevare come la doccia fredda arrivi con il presente indicativo: «La parete della scala (...) non esiste più». Esso sancisce il risveglio. Su tutta la scena spira un vento di morte. Il pudico artifizio retorico con cui Proust constata la fine di un mondo è straziante. Dapprima ci dice che la parete della scala su cui la sera fatidica si rifletteva la luce della candela non esiste più. Sta a noi concludere che con essa è svanito tutto il resto: la casa, il paesaggio, il circondari­o, l’intera infanzia... Poi ci confida che anche il padre non ha più la possibilit­à di dire niente alla madre, forse perché entrambi hanno smesso di esistere, inghiottit­i dalla furia spietata del Tempo.

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