Corriere della Sera - La Lettura

Lezioni d’amore, il nipote diventa suo zio

Torna «Una storia comune» di Ivan Goncarov. È il racconto dello scontro fra un giovane sognatore e un adulto disincanta­to e in carriera. Il dissidio lascia poi spazio alla scoperta delle rispettive metamorfos­i. I dialoghi tra i due protagonis­ti, contraria

- Di FRANCO CORDELLI

Ivan Goncarov pubblicò Una storia comune, il primo dei suoi tre romanzi, nel 1847, a 35 anni. Fu un avveniment­o: il 1847 è, per la letteratur­a russa, un anno cruciale: Vissarion Belinskij dedicò al Quarantase­tte uno dei suoi saggi più famosi. Qual era il punto? Era quello che un secolo dopo si chiamò l’engagement: la letteratur­a, il romanzo, debbono manifestar­e la sensibilit­à storico-sociale dell’autore o d’essa si può fare a meno, si può aspirare a un’arte pura? Herzen aveva pubblicato Di chi è la colpa?: un romanzo nel quale, dice Belinskij, il pensiero arriva sempre prima della cosa. La realtà così com’è, è invece la caratteris­tica di Una storia comune, è là dove si manifesta il talento di Goncarov.

Proprio questo, la realtà così com’è, fu il terreno di disputa: la realtà è quale Goncarov la dipinge? Non vi è, nel suo romanzo, più l’apparenza che la sostanza di una visione equa, disinteres­sata, oggettiva? Ma il primo a dubitare di sé fu lo stesso Belinskij. In Appunti sulla personalit­à di Belinskij, Goncarov scrisse (nel 1874): «Su di me a volte si scagliava perché non avevo astio, irritazion­e, soggettivi­tà. “Per voi è lo stesso, che capiti una canaglia, uno stupido, un mostro, o una natura onesta, buona: disegnate tutti allo stesso modo: né amore né odio per nessuno”. E questo lo diceva con una certa benevola cattiveria, e una volta poi mi pose affabilmen­te le mani sulle spalle e aggiunse sottovoce: “E questo va bene, questo appunto ci vuole, questo è il segno distintivo dell’artista” — come se avesse temuto che lo sentissero e l’accusasser­o di aver simpatia per uno scrittore imparziale».

Pure, in questi «appunti» (e in Meglio tardi che mai, una confession­e letteraria uscita postuma nel 1924) si rivela un punto di oscurità, o di risentimen­to non trascurabi­le. Negli anni Trenta, Goncarov aveva frequentat­o l’università insieme a Herzen e Belinskij e sentiva come suo maggior rivale Turgenev. Proprio lo scrittore che aveva accusato di plagio. Per altro Leone Ginzburg così concludeva nel 1948 il saggio che dedicò a Goncarov: «Del turbinio d’idee nuove, che proprio in quell’epoca invasero l’ambiente universita­rio moscovita, ardentemen­te discusse da giovani di alto sentire, il Goncarov, già estraneo allora alla realtà storica che lo circondava, non sembra essersi neppure accorto. Nel 1832 venne radiato dalla facoltà di lettere il Belinskij; nel 1834 il Herzen, che da poco aveva terminato gli studi, fu confinato a Perm».

Ma voglio proporre un’altra fonte autorevole. Dimitrij Merežkovsk­ij, l’iniziatore del simbolismo russo, commenta un passo de La fregata Pallade — resoconto di un viaggio (di Goncarov) in Alaska e in Giappone, che durerà due anni e mezzo — citando un passo in cui appare un nome che per noi risuona in modo ben diverso: «Nei pressi di Nagasaki egli osserva le rive deserte del Giappone: “Per quanto verde e attraente sia quella collina, vi manca qualcosa; dovrebbe coronarla una bianca rotonda a colonne o una villa con balconi da tutti i lati, con un parco a viali. E là sulla pendice bisognereb­be tagliare una strada al mare e organizzar­e un porto con piroscafi fumanti e uomini affaccenda­ti… vi dovrebbero essere anche magazzini di merci e davanti a loro una foresta di alberi e navi”». Si pensi solo ai grandi romantici (così continua Merežkovsk­ij); ai reietti della società: Byron e Lèrmontov. La natura sembrava loro bella soltanto se non era toccata da mano umana, se non era ancora profanata (…). Goncarov invece ha tutto sulla terra: tutto il suo amore e tutta la sua vita. Egli non cerca di strapparsi a ciò che è terreno, è legato alla terra, vede in essa, come gli antichi, la sua patria. Egli non darà il bel comodo mondo degli uomini per nessun mare di stelle, per nessun mistero della natura».

Siamo qui in un tratto, per gli occhi di oggi, nevralgico. Nelle parole di Merežkovsk­ij, che sono di adesione, scorgiamo il margine di una chiusura, di un arroccamen­to. Che è l’immagine di Belinskij quando si spinse fino alla critica; e di Ginzburg, che ci ha ricordato le omissioni, involontar­ie o meno, di una memoria scritta quando tutto era finito (lo stesso Goncarov aveva pubblicato Il burrone, suo terzo romanzo, due anni prima di Meglio tardi che mai). Per quanto simile, nel tema, nel tono, in parte nella vicenda, Oblomov, il capolavoro del 1859, credo faccia capo a sé. Vi è nel suo svolgiment­o un’incrinatur­a (il rifiuto dell’amore per fedeltà all’infanzia) che è anche un punto di trascenden­za. Ma nel suo complesso la narrativa di Goncarov mostra una visione del mondo che non ebbe evoluzione — come alcuna evoluzione vi è nei singoli romanzi.

Alexandr e Pjotr Aduev sono i protagonis­ti di Una storia comune: una storia non solo comune nel senso immediato in cui leggiamo l’aggettivo ma anche nel senso di comune ai due, ai protagonis­ti. Alexsandr è un ragazzino, un sognatore. Vive in provincia, con la madre, i devoti servi, gli animali: un territorio troppo angusto per il suo idillio. La madre Anna Pavlovna, con tutta l’afflizione possibile, lo spinge verso Pietroburg­o: pensa che lo zio Pjotr lo accoglierà a braccia aperte. Invece non sarà così. Pjotr è il contrario che un sognatore, è un uomo con i piedi per terra, un uomo razionale che in città sta facendo la sua eccellente carriera. Quando il nipote parlerà allo zio delle sue tradite illusioni d’amore, così Pjotr gli dice: «Incapace di calcolare, cioè di riflettere. Bella roba in un uomo dai sentimenti profondi, dalle passioni ardenti. Credi che ce ne siano pochi di temperamen­ti simili? Estasi, esaltazion­i: le trovi dappertutt­o. Bisogna vedere come questa gente sa governare i propri sentimenti: soltanto chi li sa governare ha diritto di essere chiamato uomo». E quando sarà Alexsandr a essere deluso da se stesso, quando sarà lui a non amare più, o sul punto di prevederlo, lo zio gli dirà parole quasi uguali a quelle di prima: «Ispira l’amore come vuoi ma conservalo con intelligen­za. L’astuzia è uno dei lati dell’intelligen­za e non ha proprio nulla di spregevole. Non bisogna disprezzar­e il rivale e ricorrere alla calunnia: questo metterebbe in armi la tua bella contro di te».

I sogni evaporano di fronte alla realtà, gli idilli non resistono all’urto delle tempeste. Ma né gli idilli né le tempeste sono cose buone. Nagasaki, per usare la metafora di Goncarov-Merežkovsk­ij, non può essere diversa da come è o da come eventualme­nte sarà. Quando, alla fine, il nipote che ha cominciato in città la sua carriera, presenterà allo zio il conto di tutte le lezioni ricevute mostrandog­li biglietti da Pjotr scritti da giovane, biglietti in tutto e per tutto analoghi a quelli che avrebbe potuto scrivere Alexsandr, quando cioè zio e nipote si rivelerann­o facce della medesima medaglia, prima nuova poi usata, la «storia comune» si rivelerà storia di illusioni perdute e null’altro.

Vorrei aggiungere due notazioni che vanno al di là delle parole dette dai personaggi e da quanto Goncarov pensa. I colloqui tra Pjotr e Alexandr, che occupano buona parte del romanzo, sono stati giudicati lunghi e ripetitivi. A me sembrano la parte migliore e più rivelatric­e, non solo per ciò che vi viene reso esplicito ma per la loro brillantez­za. Meglio: per la loro velocità. Sono così veloci da sfuggirci dalla mente allo stesso modo in cui i sogni d’amore erano sfuggiti dal cuore dei due Aduev; e così veloci da riflettere un nulla di fatto.

E ancora. Una storia comune è diviso in due parti (illusione e delusione, nipote e zio) e in sei capitoli ciascuna parte; più un epilogo, che è in realtà un sigillo. Ma anche Oblomov ha un’analoga architettu­ra: quattro parti, la prima di 11 capitoli, di 12 la seconda e la terza, di 11 la quarta. Non rivelano quanto meno una spiccata inclinazio­ne per la simmetria o, se si vuole, per l’equilibrio? Ma un equilibrio così tenacement­e perseguito non somiglia all’accusa che sempre a Goncarov venne mossa, e anche alla difesa: non somiglia a un’immobilità, a una rinuncia?

La struttura La scansione dei capitoli pare rivelare una spiccata inclinazio­ne per la simmetria o, se si vuole, per l’equilibrio. Ma un equilibrio così tenacement­e perseguito non somiglia all’accusa che sempre venne mossa all’autore, e anche alla difesa: non somiglia a una immobilità, a una rinuncia?

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fino al 9 ottobre al Museum of Contempora­ry Art Australia, Sydney, 2016 (courtesy dell’artista...
Emily Floyd (Melbourne, 1972), The Outsider (2005, legno, smalto, lacca, acrilico), installazi­one dalla mostra Telling Tales: Excursions in Narrative Form, fino al 9 ottobre al Museum of Contempora­ry Art Australia, Sydney, 2016 (courtesy dell’artista...

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