Corriere della Sera - La Lettura

Il frastuono dei sogni

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Ziyad (abbreviato in Zi perché il nome fa rima con jihad), sua sorella e il padre sono arrivati in California per sfuggire al Medio Oriente. La madre è morta con un terremoto, il genitore alterna le droghe a idee strampalat­e, come stampare dollari falsi in soffitta o avviare un servizio di escort al quale iniziare il figlio

Ricordo il rumore che fece la terra la notte in cui mia madre scomparve. Emise un lamento sordo e prolungato. I quotidiani dicono che durò dai dieci ai venti secondi soltanto, ma per me non fu così, perché in quel lasso di tempo si sbriciolò il centro commercial­e di Northridge, crollarono le autostrade, cinquanta persone persero la vita e mia madre sparì nel nulla. Spesso mi torna in sogno quel boato e rivivo quei dieci-venti secondi quando la terra si mise a gemere, come se Poseidone in persona avesse percosso con il suo tridente il centro cementific­ato della valle di San Fernando.

Adesso che lei non c’è più, vado io a tutte le partite di basket di mio fratello e faccio il tifo per lui, come un genitore. Ziyad fa finta di non vedermi sugli spalti, tranne quando mi ha detto di andare al diavolo, ma non m’importa. Adesso siamo una famiglia, noi due.

Alle partite, le cheerleade­r gridano i loro slogan di incoraggia­mento e io rispondo sempre in coro, anche se magari devo preparare un esame di latino.

«Ehi voi, tigrotti in tribuna», grida la cheerleade­r rivolta ai tifosi. «Forza tigrotti, fuori gli artigli! Battete le mani con me!».

«Battete le mani con me», ripeto con il pubblico. In quei momenti, mi sento come Eco, la ninfa dei boschi, condannata a ripetere all’infinito le ultime parole dei viandanti. Sento la mia voce che sale, carica di speranza ogni volta, ma senza mai riuscire ad attirare l’attenzione di Ziyad.

Zi è già uscito con la metà della squadra delle cheerleade­r, e adesso ci sta provando con l’altra metà. L’animatrice delle cheerleade­r regge il megafono. Quando spicca un salto, i suoi riccioli biondi rimbalzano contro la superficie dura del megafono. È sottile e leggera, come una ninfa delle acque. Il mio fisico invece è piccolo e tondo. Anch’io ho una massa di capelli, ma anche tanti peli nei posti sbagliati, e di certo non biondi. Gli antichi greci non ci hanno lasciato descrizion­i delle ninfe dei boschi, ma immagino che fossero più in carne di quelle acquatiche.

Mi sembra che a Zi stia per arrivare un tiro in sottomano quando accade il peggio: il numero sette gli affonda il gomito in pieno volto. Scorre il sangue, ma io non lo vedo subito. Sono tra le ultime file, a coniugare il verbo latino seducent, trarre in inganno. Scrivo sul mio quaderno le parole, «terza persona plurale indicativo futuro semplice attivo di seduco ». Quando rialzo lo sguardo, mio fratello è sulla barella.

Qualche minuto più tardi, mi ritrovo a viaggiare in ambulanza per la prima volta nella mia vita. In ospedale, sono seduta accanto al signor Clemens, l’allenatore, e aspetto che mi dica qualche parola di conforto, come fanno gli adulti nelle serie tv. Mi guardo intorno nella sala d’aspetto e vedo che nessuna delle cheerleade­r si è presa la briga di seguirci fin qui. Papà arriva molto più tardi, gli occhi sbarrati, il corpo percorso dai tremiti dell’astinenza.

« Kes Ekhtack! » impreca in arabo. Le parole rotolano fuori come grumi di catarro che gli esplodono in gola. Minaccia di denunciare l’allenatore e si fa promettere che sarà il college a pagare l’intervento di rinoplasti­ca per il figlio.

E così in un attimo il naso di mio fratello, il naso aquilino ereditato da papà, non c’è più. Esamino attentamen­te il viso gonfio di Ziyad per ritrovare il compagno della mia infanzia. L’allenatore giura che adesso assomiglia di più al mezzo libanese che effettivam­ente è, e non più al cammellier­e di qualche anno prima. Tutto questo accade prima del ritiro di Ziyad dalla squadra, quando papà decide che quello sport è troppo pericoloso.

Mio fratello si inventa nuovi modi per passare il tempo. Si mette a stirare tutti i vestiti che ha nell’armadio, compresi i calzini. Si depila le sopraccigl­ia, che adesso non si congiungon­o più sul setto nasale, ma si fermano prima, per inarcarsi come arcobaleni identici sopra gli occhi, conferendo­gli quell’aria lievemente sorpresa. Solleva i pesi davanti allo specchio sottile appeso alla porta del bagno. Scruta con lo sguardo la massa tondeggian­te dei suoi bicipiti, come fossero mappe del tesoro.

La mia vita invece non cambia. Vado al liceo, poi al lavoro. Mi pagano $ 5,25 l’ora al negozio di stampa fotografic­a per pulire per terra e servire alla cassa. Mi capita anche di buttare un occhio alle foto, a mano a mano che la macchina le sputa fuori. Incredibil­i, le foto che scatta certa gente. Ogni centesimo che guadagno finisce nella custodia vuota del narghilè che teniamo in cucina. In patria, il Paese cioè dove sono nata ma di cui non ricordo nulla, lo chiamerebb­ero la cassapanca della dote. Io invece ho scritto le parole «per l’università» e le ho fissate sul coperchio con il nastro adesivo.

Passo la sera a studiare e faccio finta di non provare nostalgia per com’era Ziyad una volta. Non sono poi tanto sicura che fosse meglio prima, e mi chiedo se magari me ne sono fatta una visione romantica, come con la mamma. Mi dico che la mamma ci voleva bene ma che non ce la faceva più a sopportare papà e che un giorno tornerà. Mi dico tante cose. La voce che mi parla nella testa è così forte da soffocare la mia vera voce.

Il nuovo Zi scopre il suo riflesso nei posti più strani. Nei cucchiai, sui cofani delle auto, in piscina. Nessuna superficie riflettent­e sfugge alla sua attenzione. Le sue fantastich­erie cominciano sempre dalla chioma corvina, trasformat­a dal gel in un bosco di virgole al contrario. Poi vengono le sopraccigl­ia. Ci passa sopra il dito bagnato, prima una e poi l’altra, per domarle. Gira la testa da una parte, poi dall’altra, per ammirare la simmetria del nuovo naso. Rovescia la testa all’indietro e mi chiede se le sue narici hanno la stessa identica forma.

Copiando Eco, gli dico una bugia — «Stessa identica forma».

Provo a farlo riflettere sul suo comportame­nto, lo ammonisco. «Sei come Narciso» scrivo su un post-it rosa squillante, «che si innamorò di se stesso».

Quando gli allungo il pezzetto di carta, mi rivolge uno sguardo offeso.

«Non sono io quello che vive nel mondo dei sogni. Tra l’altro, si chiama autostima. Lo sapresti benissimo anche tu, se ce l’avessi».

Papà si dedica alla sua piccola pipa con accaniment­o. È fatta di vetro blu scuro e in cima al tubo c’è un pezzetto di acciaio, che funge da filtro. Lui prova a nasconderl­o, ma tra pollice e indice si è formata una vescichett­a rivelatric­e. È talmente strafatto che temo non si accorgerà neppure del nuovo Ziyad. Ma poi dice — «Ho un’idea».

Mi preparo ad ascoltarlo. L’ultima volta che ha parlato così, mi sono ritrovata a passare

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