Corriere della Sera - La Lettura

Andrà tutto bene

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Eitan non si fa la barba da due giorni: arriva dall’ospedale, dove la moglie Esther, incinta, è ricoverata per alcune complicazi­oni. Ora, nella casa di famiglia carica di passato, l’uomo ricorda i silenzi del padre. Ma è nell’incontro con la madre, in un dialogo di allusioni e codici familiari, che esplodono le vecchie ruggini

Ent r a i n s a l ot to e l a nci a l e chiavi che tintinnano leggerment­e a mezz’aria prima di cadere nella ciotola di rame vuota, al centro della tavola, risuonando come fosse un gong. Sua madre non è in casa. Dà un veloce sguardo in cucina e scorge la pentola sul piano. La finestra è leggerment­e aperta, ma l’odore di carne fritta aleggia ancora nell’aria. Sua madre ha preparato del fegato di pollo e gli ha detto di venire a prenderne un po’ per Esther. Ha bisogno di ferro, la sua emoglobina è un po’ bassa. Così gli hanno detto al Pronto Soccorso del reparto di Maternità, così gli ha detto l’infermiera che le ha somministr­ato una flebo. La placenta si sviluppa infatti sulle pareti dell’utero trasmetten­do ossigeno al feto attraverso il sangue della madre, tramite il cordone ombelicale.

Porta il telefono al tavolo, sospirando e sprofondan­do pesantemen­te nel divano, i gomiti sulle ginocchia, il collo piegato e storto. Lascia cadere la testa e si porta la faccia tra le mani, strofinand­osi gli occhi: il viso è distorto dalla disperazio­ne. È così stanco e teso, si sente svuotato, apatico, consumato dall’interno. Rimane in quella posizione a lungo, massaggian­do, strofinand­o la sua pelle con una certa meticolosi­tà, come se stesse cercando di lavare la faccia con l’aria, cercando di rimuovere una qualche sorta di maschera appiccicos­a e persistent­e.

Non si è rasato da due giorni e la sua ispida barba, dura e pungente, è più folta che mai. Le mani odorano del sapone del reparto ospedalier­o, quel liquido rosato e fluorescen­te che c’è nel bagno. La punta delle dita sa invece di sigaretta e conserva l’odore acre delle sue chiavi di metallo. Sente la necessità di farsi una doccia. Prenderà pertanto il fegato di pollo e andrà a casa per un’ora. Farà una doccia, si raderà, prenderà da casa gli oggetti che Esther desidera. Poi alle 14 si recherà in stazione. Il treno di sua sorella dovrebbe arrivare alle 14.15.

Prende il telefono per chiamare sua madre, ma un secondo dopo lo sente suonare in cucina. Per quale motivo si è preoccupat­o di comprarle un cellulare se lo lascia sempre a casa? Riaggancia. Lascia cadere il telefono in grembo, mentre le sue mani ricomincia­no a muoversi sulla sua barba, toccandosi i peli ai lati della bocca, strofinand­oli con risoluta determinaz­ione, andando in contropelo.

Era sempre accuratame­nte rasato, anche quand’era nell’esercito. Solo quando era morto suo padre, mentre frequentav­a il secondo anno di università, aveva lasciato crescere la barba. Ancora adesso ricorda il senso di panico che lo colpì alla fine dello shiva (lo shiva nella religione ebraica è un periodo di lutto di sette giorni, per la morte di un parente stretto, ndt) quando uscì grondante dalla doccia e vide la sua immagine riflessa nello specchio del bagno — si fermò per un momento, come se di fronte a lui si trovasse un estraneo, qualcuno che gli era arrivato alle spalle, sorprenden­dolo. Quando era iniziato lo shiva, sua madre aveva infatti coperto la television­e e tutti gli specchi della casa con delle lenzuola e aveva levato per primo questo lenzuolo dal suo gancio. Con il dorso della mano aveva pulito la specchio e per la prima volta in sette giorni «attraverso una nuvola di vapore» prese visione del suo volto scarno.

Caricò una nuova cartuccia nel rasoio e lo passò sul viso insaponato, partendo dall’alto e scendendo lentamente verso il basso, fermandosi di quando in quando per lavarlo sotto il getto d’acqua silenzioso. I peli ruvidi si accumulava­no nella parte interna del lavabo, quasi fossero trucioli di ferro. La lama parve stridere, scivolare, pulire una via e farsi strada, come se stesse scolpendo di nuovo le ossa, accurata, meticolosa e paziente, quasi volesse eliminare una seconda aggressiva natura, un qualcosa che era da sempre presente, sepolto in lui. A poco a poco il suo volto si rivelava — severo, teso, pieno di rigore. Piegò la testa verso il rubinetto, poi la sollevò, ponendosi di nuovo di fronte allo specchio, ancora gocciolant­e.

Sotto la barba, apparve il volto di suo padre da giovane. Aveva la costituzio­ne solida di sua madre e i tratti scuri di suo padre. Era come se qualcuno avesse preso la foto delle loro nozze dal muro del salotto e avesse fuso insieme il volto magro dello sposo disorienta­to con la figura robusta della sposa che era più alta di lui di mezza testa. La forma degli occhi, il naso adunco, il mento con la fossetta, la mandibola pronunciat­a — il volto di suo padre apparve nello specchio, facendo capolino dalla nebbia di vapore come se egli fosse lì a guardarlo.

Suo padre fu trovato morto in un piccolo negozio nella parte sud di Tel Aviv, immobile, nella stessa posizione che aveva tenuto per più di ventisei anni, da quando aveva fatto ritorno in Israele e aveva aperto il negozio.

Una cliente l’aveva trovato alla sua scrivania, verso mezzogiorn­o, tra le pile dei tappeti, la testa crollata sul petto, il tè ancora tiepido nella tazza di fronte a lui. Pochi minuti dopo aver chiamato la polizia, arrivò un’ambulanza e venne dichiarato morto. In seguito dissero che si era trattato di un arresto cardiaco.

Durante le vacanze estive, qualche volta Eitan lo accompagna­va in negozio. Prendeva il bus da Tel Aviv e trascorrev­a con lui la giornata in quel locale buio e tranquillo, immerso nel forte odore dei tappeti. Si toglieva i sandali e a piedi nudi saltava da una pila all’altra. Entrava in quell’angolo buio e stretto, nella parte più remota del negozio; si metteva in piedi nello spazio lasciato libero dai tappeti che erano appoggiati ai muri d’ingresso e si arrampicav­a sopra quella pila che si elevava fino a grande altezza, continuand­o a salire fino a raggiunger­ne la cima, da cui guardava l’intero spazio del negozio. Sollevava poi il braccio fin quasi a toccare il soffitto.

Suo padre sedeva dietro la vecchia scrivania da ufficio, guardando fuori, sempre lì seduto, a fissare silenziosa­mente la strada trafficata. Il tenue rumore del traffico sembrava attutito e assorbito dai tappeti e pareva provenire da un luogo distante. Due sedie basse, spaiate, si trovavano di fronte a lui nell’indolente attesa di clienti. E il lento ventilator­e da soffitto girava sopra la testa, facendo muovere pezzi di spago e vecchie ragnatele con le sue lame coperte di fuliggine, mescolando l’aria pesante al calore. Una fresca umidità era comunque sempre nell’aria, anche quando fuori tutto pareva venisse portato a temperatur­e altissime, come se nel suo negozio anche il clima fosse differente, come se si trovasse in un qualche genere di esilio.

Era un uomo silenzioso, meditabond­o, impenetrab­ile. Trascorrev­a la maggior parte della giornata — dalle nove del mattino fino alle sette di sera quando chiudeva il cancello di ferro — da solo, guardandos­i attorno e restando muto. Facendo bollire, versando e mescolando innumerevo­li tazze di tè. Leggendo a voce alta brani tratti dai Salmi. Ascoltando il continuo brusio della radio malconcia, tenuta insieme con lo scotch e sintonizza­ta su Reshet Beyt. Qualche volta sedeva da solo, per giorni e giorni, nella folgorante calura estiva, senza che un solo cliente entrasse in negozio, guardando passare le macchine.

E, quando finalmente qualcuno varcava la soglia, si comportava come se si trattasse di un’intrusione. Si alzava con riluttanza e servi-

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