Corriere della Sera - La Lettura

L’incidente di Salonicco

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Un ragazzino attraversa la Grecia, e i Balcani, e la Turchia, in attesa di diventare uno scrittore. Ha uno zaino in spalla (sempre più pesante), cinquanta sterline in tasca (sempre meno), il libro di un autore russo e, malaugurat­amente, un coltello bulgaro. Così quel ragazzino diventerà un uomo

«Quali scrittori ti hanno influenzat­o», è una domanda complicata. Il modo in cui uno scrittore ne influenza un altro è una questione misteriosa e incomprens­ibile, almeno quanto la ragione per cui si diventa scrittori. La stessa parola «influenza» è fuorviante. Presuppone che il modo di scrivere di qualcuno possa direttamen­te formare e permeare quello di altri, cosa che accade, ma sicurament­e le influenze più importanti non sono di questo genere. Sono quelle in cui altri scrittori, pur non trasmetten­do alcun segno stilistico, accendono o riaccendon­o il semplice desiderio di scrivere.

Nel settembre del 1967 mi trovavo a Salonicco, nel Nord della Grecia, con un paio di giorni da far passare prima di prendere un treno, per il quale avevo già il biglietto, che attraversa­ndo l’Europa mi avrebbe riportato a casa a Londra. Cinque mesi prima, all’età di diciassett­e anni, ero partito nella direzione opposta, con uno zaino e senza precedenti esperienze di «estero», ed ero ormai alla fine di un lungo viaggio circolare che dalla terraferma greca mi aveva portato a saltare da un’isola all’altra dell’Egeo, zigzagando fino alla Turchia orientale, tornando a Istanbul e alla Turchia europea, poi — attraverso i confini della Bulgaria aperti da poco — a Plovdiv e Sofia, infine, attraversa­ndo le montagne e le foreste bulgare, di nuovo verso Sud e in Grecia.

Meno di un anno prima, avevo passato un esame che mi permetteva di entrare a Cambridge nell’ottobre successivo e, con quel posto assicurato, la mia scuola aveva permesso con indulgenza a me e a pochi altri di «scomparire» senza completare il restante anno scolastico. All’ora di pranzo di una giornata pioviggino­sa del dicembre 1966, senza cerimonie o formalità, io

e un paio di amici siamo usciti dai cancelli della scuola, sapendo che non ci saremmo mai più rientrati.

A quel punto ero già deciso a trascorrer­e viaggiando buona parte dei mesi di libertà che avevo, e la prima destinazio­ne sarebbe stata la Grecia e il Mediterran­eo orientale. Quell’inverno mi ero trovato un lavoro temporaneo, e ad aprile avevo messo da parte le cinquanta sterline che, in quei tempi di restrizion­i valutarie, era il massimo che si poteva portare in un viaggio all’estero. Nel frattempo c’era stato un colpo di Stato militare in Grecia, c’erano carri armati per le strade, e il Paese era caduto, con conseguenz­e ancora ignote, sotto una delle peggiori dittature che abbiano afflitto l’Europa del dopoguerra. Questo non mi trattenne. Con uno zaino, cinquanta sterline e un biglietto ferroviari­o per Atene — con la data di ritorno aperta — partii.

Sapevo già, in maniera occulta, sotterrane­a, di voler fare lo scrittore, come può saperlo uno scolaretto, ciò che in sostanza ancora ero. Quando mi chiedono come mi è venuta per la prima volta voglia di scrivere, di solito rispondo che è stato nell’adolescenz­a, ma penso che sia successo molto prima, e che le prime e forse più significat­ive «influenze» siano stati i primi veri libri che ho letto. Non penso alla grande letteratur­a, ma ai semplici libri per bambini e alle storie di avventure per ragazzi, con propension­e per le ambientazi­oni storiche. Sono stati i libri che mi hanno dato le prime emozioni e mi hanno fatto pensare a quel che uno scrittore può mettere tra una copertina e l’altra, e per la prima volta mi è venuto in mente che anch’io avrei potuto fare qualcosa di simile.

Quando ho lasciato la scuola avevo letto una discreta quantità di libri classici, seri, e a Cambridge avrei continuato a farlo. Le mie ambizioni letterarie rimanevano tacitament­e sospese, non materializ­zate, e lo sarebbero state ancora per molti anni. Una cosa — non particolar­mente difficile — era il voler fare lo scrittore, un’altra era diventarlo, anche se sinceramen­te sentivo di essere spinto da qualcosa di più di una semplice velleità.

Riandando a quel tempo, penso che la verità fosse che avevo della mia ambizione, paura di scoprire che non avevo le doti per realizzarl­a. Da giovani è molto facile rifugiarsi nell’ingannevol­e bozzolo del procrastin­are. Se non si mette mai alla prova quel che potrebbe rivelarsi un’illusione, non si rischia di soffrire per aver constatato che era un’illusione. Per altri versi, credo che il fatto di temere la mia ambizione fosse una prova della sua autenticit­à. Sapevo che prima o poi avrei dovuto affrontarl­a, e sapevo anche che trattandos­i di un’ambizione del tutto solitaria, non indotta dai genitori, per iniziare avrei avuto bisogno di un catalizzat­ore esterno.

Non penso però di essere partito, zaino in spalla, alla maniera di Kerouac, cercando un’esperienza da poter «usare». Avevo sempliceme­nte voglia di fare esperienze interessan­ti e, al di là della letteratur­a, di scoprire come me la cavavo. In realtà non ero poi così libero dalle tendenze del momento: stavo sempliceme­nte seguendo il percorso degli hippy. Infatti, anche se viaggiavo per lo più da solo, incontravo spesso altri che facevano la stessa cosa, seguivano l’impulso di vagabondar­e verso Oriente. Ma se anche avessi pensato di raggiunger­e Kathmandu, in realtà mi affacciai appena in Medio Oriente. Non credo di aver avuto in mente una meta lontana. Lo scopo era viaggiare. Seguivo il mio fiuto, l’istinto, il capriccio, ma ero sempre attento a controllar­e fin dove potevo spingermi con cinquanta sterline.

Mi ricordo che quando sono partito volevo voltare le spalle a tutto quello che avevo conosciuto fino ad allora: scuola, quartiere, contea, una vita familiare abbastanza protetta, e an-

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