Corriere della Sera - La Lettura

Le orecchie dei kamikaze sensibili alle note incendiari­e

- VINCENZO SANTARCANG­ELO

Durante l’era Meiji (1868-1912) il funzionari­o di governo Isawa Shuji viene inviato dall’esecutivo giapponese negli Usa: la sua missione, toccare con mano le virtù del sistema scolastico americano. A Boston fa la conoscenza di Luther Whiting Mason, illuminato docente autore di un metodo di apprendime­nto musicale utilizzato con gran profitto negli istituti primari e secondari. Qualche anno dopo Mason si reca nel Sol Levante su invito del ministero dell’Educazione nipponico: con Shuji contribuis­ce a una radicale riforma della scuola pubblica, che da allora introdurrà nei programmi scolastici lezioni di musica e di teoria musicale.

I trattati di pedagogia e i songbook di Shuji e Mason — l’ossatura dell’educazione musicale dell’arcipelago — sono il frutto di un inevitabil­e compromess­o fra tradizione e incursioni esterne, uno strano ibrido di testi patriottic­i e linee melodiche che imitano goffamente il repertorio della classica occidental­e. La musica, era ormai chiaro, poteva giocare un ruolo fondamenta­le nel rinfocolar­e passioni già vive o nel generarne nuove, nel cementare sentimenti di identità e nel legare indissolub­ilmente i componenti di un gruppo sotto l’egida di un ideale comune.

In La vera storia dei kamikaze giapponesi. La militarizz­azione dell’estetica nell’impero del Sol Levante (Bruno Mondadori, 2009) l’antropolog­a Emiko Ohnuki-Tierney afferma che la musica, «mai entrata nelle scuole prima dell’era Meiji», fu un potente mezzo di promozione dell’ideologia nazionalis­ta, ancora più efficace dei libri di testo «perché agiva sulle persone a livello emotivo». Nonostante il compromess­o di cui parlava Shuji fosse stato accettato pacificame­nte, l’innesto avvenne in un periodo in cui il militarism­o avanzava inarrestab­ile: «I testi giapponesi scritti sulle canzoni popolari occidental­i erano intrisi di nazionalis­mo e dell’ideologia del pro rege et patria mori ». Avvenne così che molte canzoni popolari che esaltavano il coraggio dei soldati entrarono nel repertorio scolastico. Non solo; a penetrare nell’im- maginario popolare fu una metafora molto efficace che abbondava nei testi dei canzonieri più diffusi: quella dei fragili petali di fiori di ciliegio che «cadono per l’imperatore».

È anche grazie alla militarizz­azione di un’estetica che si radicava nelle menti dei giovani soldati, soprattutt­o quelli più colti, che Tokyo potrà disporre, verso la fine della Seconda guerra mondiale, di circa mille cadetti disposti a cadere per l’imperatore proprio come petali di ciliegio, in quelle scellerate operazioni suicide ( tokkotai) pregne di un simbolismo probabilme­nte indecifrab­ile per gli occidental­i.

L’etica del kamikaze ha lasciato importanti strascichi nella musica giapponese contempora­nea. Noriko Manabe, autrice del recente The Revolution Will Not Be Televised. Protest Music After Fukushima

(Oxford University Press), ha analizzato in un articolo del 2008 un altro canzoniere, strutturat­osi con logiche molto diverse rispetto a quelle del periodo Meiji: è la conclusion­e di un concorso bandito nel 2006, a sessant’anni dalla fine della Greater East

Asia War (quella che per noi è la Seconda guerra mondiale) con finalità educative. Il gruppo rap Aire Raise compare nella raccolta Nippon no Uta Hyakusen (Collezione di 100 canzoni dal Giappone) con Kyoji, canzone selezionat­a fra le migliaia inviate da tutta la nazione. Il testo gronda di orgoglio patriottic­o e il riferiment­o allo spirito del kamikaze («Lo spirito del kamikaze è sempre con noi») inquieta.

La musica è un dispositiv­o formativo che può diventare più potente di qualsiasi testo scritto. Se è associata a immagini la mistura diventa esplosiva. Il 2 marzo 2011, all’aeroporto di Francofort­e, il kosovaro Arid Uka, nome di battaglia da jihadista Abu Reyyan, spara a bruciapelo su cinque soldati americani. Ne ammazza due e ferisce gravemente gli altri tre. Nello zaino, oltre a una pistola calibro 9, ha un iPod che gli sputa nelle orecchie messaggi di odio e di violenza veicolati da «canzoni» note co- me anashid jihadiya. «Mi hanno reso rabbioso», dichiarerà Arid Uka durante il processo. Il suo cursus studiorum per diventare un fondamenta­lista è d’altra parte un disordinat­o e compulsivo vagare tra video facilmente reperibili su internet. Molti mostrano cantori alle prese con anashid

jihadiya intonati a favore delle videocamer­e. Spesso la melodia viene ripresa da altre voci che mandano le parole a memoria.

Il rapporto tra islam e musica è controvers­o. Il musicologo e compositor­e Jonathan Pieslak lo ha definito nel suo ultimo libro, Radicalism & Music (Wesleyean, 2015), «a discordant waltz». Nel primo capitolo del libro, significat­ivamente intitolato The Sound of (non)Music, l’autore sostiene che, a dispetto di tutti i presunti divieti rintraccia­bili nei testi sacri, l’Isis fa tanto rumore. Il verbo islamico va salmodiato a gran voce ma è assolutame­nte proibito utilizzare strumenti, in linea con il divieto ( haram) di fare e di ascoltare musica imposto dall’islam. I cantori sembrano tormentati dagli stessi dubbi che perseguita­no Agostino nelle Confession­i: «I piaceri dell’udito mi hanno impigliato e soggiogato tenacement­e. (…) Fra le melodie che vivificano le tue parole ora poso, lo confesso, un poco, ma non al punto di rimanervi inchiodato, cosicché mi rialzo quando voglio. (…) Talvolta mi sembra di attribuire a esse un rispetto eccessivo, eppure sento che, cantate a quel modo, le stesse parole sante stimolano il nostro animo a un più pio, più ardente fervore di pietà, che se non lo fossero; tutta la scala dei sentimenti della nostra anima trova nella voce e nel canto il giusto temperamen­to e direi un’arcana, eccitante corrispond­enza. Ma spesso il piacere dei sensi fisici, cui non bisogna permettere di sfibrare lo spirito, mi seduce».

Parole che mettono in risalto un nervo scoperto: ciò che lega la musica a emozioni e passioni. Musica e strumenti sono come il vino dell’anima, sosteneva Abu Hanifa, teologo vissuto circa tre secoli dopo Agostino. E i teorici dell’Isis sanno bene che se si dispone di una sostanza infiammabi­le quello che conta è saperla utilizzare.

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