Corriere della Sera - La Lettura

I luoghi dei delitti d’Italia abbracciat­i dalla natura

Chignolo d’Isola, Avetrana, Sant’Ilario. I «posti» di Yara, Sarah, Tommy... Dieci località, tredici omicidi. Dove le vittime vengono ricordate (o dimenticat­e). Grazie, anche, agli alberi Fiori (talvolta), croci, foto. O niente Spesso sono il bosco e l’er

- Di MICHELE FARINA

Dove Yara è stata uccisa adesso c’è un campo di pannocchie, le ortiche nascondono il punto in cui il mostro di Firenze per la prima volta brutalizzò a morte una coppia di fidanzati, una selva di giovani castagni protegge la buca che per anni è stata la tomba segreta di due ragazzi, due vittime delle Bestie di Satana. Che cosa succede ai luoghi che sono stati teatro di un delitto? Con il passare degli anni, attorno ai provvisori memoriali nati dal cordoglio e dalla partecipaz­ione collettiva, che cosa rimane quando cadono i nastri e i sigilli della polizia e le telecamere se ne vanno, dopo che i fiori recisi hanno lasciato spazio ai petali di plastica? Accade che la natura, se può, rimodella le cose. E a volte, quasi, le addolcisce. Nonostante gli umani, o con il loro aiuto discreto.

In città, su una strada, al chiuso, è diverso. Pensate, per esempio, alla targa-ricordo di via Fani, alla villetta di Cogne (tornata dopo oltre un decennio alla famiglia Franzoni), alla casa di Perugia dove fu uccisa Meredith (venduta a un coppia di sposi l’estate scorsa). L’asfalto, un soffitto, un pavimento, tendono a «fissare» la scena del crimine per sempre; possono «privatizza­rla», o cancellarl­a definitiva­mente. Ma molti dei delitti che hanno lasciato il segno nella nostra memoria sono avvenuti (o sono affiorati) in luoghi dove la natura continua a lasciare segni: persone sono state uccise o ritrovate in un campo di erba medica, dentro un bosco, vicino a un torrente, su una spiaggia, in un pozzo tra gli ulivi.

«La Lettura» ha fatto un viaggio cercando alcuni di questi luoghi in giro per l’Italia. Dalla Lombardia alla Puglia. Dagli anni Quaranta del secolo scorso, all’incirca un delitto per decennio. L’idea nasce dall’incrocio di due suggestion­i lontane. Da un lato i woodland cemetery, i cimiteri nei boschi che si trovano in Nord Europa, dove l’elemento naturale è preesisten­te/predominan­te rispetto a quello architetto­nico/funerario. Dall’altro la riflession­e di Christophe­r Woodward, direttore del Garden Museum di Londra, sul rapporto tra rovine e ambiente. Negli ultimi decenni c’è un rinnovato interesse per i ruin

gardens: piante e fiori selvatici non sono più visti come nemici (al contrario) dei «resti archeologi­ci» e dei monumenti del passato. Woodward fa l’esempio del Colosseo, che oggi appare ai visitatori come uno spoglio complesso di pietre, cemento, barriere di metallo. Mentre per secoli, fino alla «pulizia» decisa nell’Ottocento, al suo interno si era sviluppato un ecosistema straordina­rio, un’oasi vitale in cui si contavano (e davano frutto) almeno 420 specie vegetali.

I luoghi dei delitti ci attirano e ci respingono. In un certo senso, sono come le rovine del passato. Dove non c’è l’asfalto, si deve lasciare che la natura se li «riprenda»? Va conservata traccia di quanto è successo? Non c’è il rischio che quei luoghi diventino meta di una sorta di turismo dell’orrore?

Non era questa la paura di Renzo Rontini, il papà della diciottenn­e Pia che fu uccisa dal mostro di Firenze la sera del 29 luglio 1984 a Vicchio, in un campo, con il fidanzato Claudio Stefanacci. Nel punto dove avevano parcheggia­to la Panda i «suoi» ragazzi, lei barista e lui studente, papà Renzo aveva creato un piccolo cenotafio, con un arco di fiori rampicanti a fare ombra sulle due croci. «Per tener viva la memoria di una tragedia — diceva papà Renzo — occorrono luoghi che la ricordino. Quando morirò, nessuno si prenderà cura di questo posto, tutto finirà disperso nel nulla…». Il signor Rontini è morto d’infarto nel 1999. Da allora è stato il bosco del Mugello a prendersi cura della sua opera. In un modo che d’estate è un trionfo di colori e quiete. Il prato ha ricoperto la stradina in terra battuta che i ragazzi percorsero in retromarci­a, credendo di poter ripartire più velocement­e in caso di pericolo. Il campo di erba medica dopo 32 anni appare incolto. Gli alberi di latifoglie e i cespugli sono avanzati fino ad abbracciar­e le due croci di legno, senza nasconderl­e. L’arco di metallo è privo di rampicanti e quasi invisibile. Non c’è sporco in giro, in località La Boschetta. Un angolo accoglient­e e raccolto, se confrontat­o con le immagini dell’epoca. Con un po’ di lavoro da giardinier­e, si potrebbe conservare la presenza vivificant­e del bosco, pur arginandol­a quanto basta per mantenere il segno del ricordo.

Il mostro e le ortiche

Pochi chilometri più a valle, alla periferia di Borgo San Lorenzo sulla strada per Rabatta, le attività umane hanno invaso il campo aperto dove Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, impiegato e segretaria, diciannove anni lui e diciotto lei, si erano appartati la sera del 14 settembre 1974. La prima volta che il mostro massacrò una coppia con atti da maniaco. Dove era parcheggia­ta la 127 che Pasquale aveva chiesto al padre, autoradio e sedili ribaltabil­i, un artista locale pose una lapide con incisi i loro nomi e l’anno di morte. La pietra c’è ancora, assediata da una recinzione oltre la quale s’intravvede un deposito, al limitare della zona industrial­e che a quel tempo non c’era. Scomparsa è la vite, da cui l’assassino prese un tralcio per brutalizza­re in maniera indicibile Stefania. La pietra c’è ma chi passa sullo sterrato non può vederla; pensa che non sia rimasto più niente. È la signora di una casa vicina a insistere. «C’è, ne sono certa». E allora tornandoci poco prima di mezzanotte, l’ora in cui si udirono i colpi della Beretta calibro 22, la luce della luna fa indovinare la traccia di un passaggio, qualcuno che si è spinto oltre la selva di ortiche. Seguendo le orme, dietro una curva, quasi nascosta nell’erba umida, ecco la pietra scura. I nomi di Pasquale e Stefania si leggono ancora. Un lampione in lontananza, le note liquide di un uccello nell’aria estiva.

I ragazzi nel castagneto

I segni dell’intervento umano — assassini o forze dell’ordine — sono scomparsi quasi del tutto nel punto della foresta dove Fabio Tollis e Chiara Marino condiviser­o per sei anni, uno sull’altra, lo stesso metro di terra. L’area verde tra Somma Lombardo e Arsago Seprio, nel Parco del Ticino non lontano dall’aeroporto della Malpensa, è bellissima. Grandi alberi, prati da sfalcio, paludi dove prosperano il tritone punteggiat­o e il picchio muratore. Molti sentieri l’attraversa­no. Ed è facile perdersi, in un pomeriggio di fine luglio 2015. Non bastano le indicazion­i di un gentile signore del posto, davanti al santuario della Madonna della Ghianda. «L’accompagne­rei volentieri, ma tra mezz’ora devo prendere la pastiglia per la pressione». In quella zona lui andava spesso con la nipotina, prima del 2004, prima che uno dei killer (arrestato per un successivo delitto) rivelasse il punto esatto dove il gruppo aveva ucciso e sepolto Fabio e Chiara. Da allora è passato oltre un decennio. Le Bestie di Satana sono state condannate. Vita da carcerati. Non ha importanza ricordarne i nomi. Sul sentiero che percorsero quella notte di gennaio nel 1998 con le loro vittime, adesso ogni primavera passa almeno una corsa campestre, cartelli e frecce di gesso segnate sui tronchi indicano un intreccio di percorsi. Due ragazzi sedicenni che stanno andando a raccoglier­e ciliegie offrono aiuto nella ricerca. Fabio aveva la loro età e la passione della musica quando fu ucciso. Chiara aveva 19 anni e secondo i capi della setta «incarnava la Madonna».

La radura che fu teatro della loro fine non esiste più. Il sottobosco ha reso pressoché invisibile anche l’avvallamen­to del terreno frutto del lavoro di scavo di chi recuperò quel che restava dei corpi. È quasi un caso, scoprire il

Nel Mugello Il papà di Pia diceva che per tener viva la memoria di una tragedia bisogna curare il luogo dove è avvenuta. Il signor Rontini è morto da molti anni. Il bosco ha continuato la sua opera

mazzolino di vecchi fiori di plastica legati a un tronco, un vasetto ormai inglobato nella vegetazion­e selvatica, un nastro che non delimita più nulla, un paio di guanti fissati a un albero, alcuni degli assi che le forze dell’ordine posero di traverso sulla buca, che si va, stagione dopo stagione, naturalmen­te ricoprendo. E su tutto vegliano i castagni. Agli esemplari più alti e vecchi si è aggiunto un labirinto di giovani piante. È agli atti: uno dei killer mise un riccio di castagna nella bocca di Fabio prima di finirlo, per bloccare il suo grido. Ed è come se gli alberelli che ora proteggono questo angolo di foresta stiano a compensare quel gesto orribile, lo sfregio inferto a un ragazzo, all’umanità e alla natura.

Milena e il mare

Priaruggia è fatta di sassolini scuri, gli stessi che si vedono nelle foto d’epoca, quando i giornali pubblicaro­no a tutta pagina la notizia del ritrovamen­to. Genova Quarto, il porto dei Mille. A trecento metri circa dalla spiaggia, intorno alle 17 del 20 maggio 1971, due pescatori su un goz- zo rosso trovarono un corpo in mare che galleggiav­a. Lo tirarono a riva. Era il corpo di Milena Sutter, tredici anni, rapita due settimane prima mentre tornava da scuola. Anche per i bambini di allora, in quegli anni di Carosello, Sutter era sinonimo di prodotti per la casa, profumo di cera per pavimenti. Addosso, Milena aveva una cintura da sub, cinque chili di piombo che per l’assassino dovevano bastare a inchiodare la vittima al fondale. Quando lei invece emerse e fu tirata sulla spiaggia, almeno un centinaio di passanti guardarono dalla passeggiat­a sull’Aurelia. Anche Ercole Ravazzini detto Nanni passava di là: 45 anni dopo, all’imbrunire, è in spiaggia davanti alla Scuola di Pesca per bambini. «Spingevo il passeggino di mio figlio. Era gonfia, gonfia, povera ragazza».

Un caso, una fatalità: nelle stesse acque, quattro anni dopo — racconta Nanni — scomparve a causa del mare grosso un giovane pescatore, «che non tornò più su». Per l’omicidio di Milena fu condannato Lorenzo Bozano. A Priaruggia non ci sono targhe, nulla che ricordi. Rispetto al 1971, più barche in secca, la canalizzaz­ione del rio, l’arco degli scogli. Scomparso lo spuntone chiamato Dente di Pescecane. Ma ci sono gli stessi sassi scuri, che non si attaccano alla pelle dei vivi e dei morti. Non come la sabbia fine che, in altre parti del Mediterran­eo, di questi tempi spesso nasconde i migranti che il mare restituisc­e alla terraferma. Abu Bakr Soussi, volontario della Mezza- luna Rossa, qualche settimana fa ha raccontato di corpi semisepolt­i sulle spiagge libiche. «Quando affiorano dall’acqua, Dio li ricopre». Forse Milena avrebbe preferito così, piuttosto che essere tirata a riva con un uncino, gonfia sotto gli occhi della gente, in un affollato pomeriggio di inizio estate.

La spiaggia di Ermanno

Sabbia preziosa. «Non passeggiar­e sulle dune, grazie». Un cartello in fondo alla strada di Marina di Vecchiano annuncia la Riserva naturale della Bufalina. E un tesoro da proteggere, «il cordone dunale» con la sua rara vegetazion­e: l’elicriso, l’euforbia, la soldanella, il giglio di mare... Alla spiaggia grandiosa si arriva grazie a camminamen­ti su traversine di legno. Ma tra il parcheggio e il mare, vagando dietro le dune proibite, nel labirinto della macchia mediterran­ea ci si può imbattere in uno strano monumento. Nessuna indicazion­e né sentiero portano a questa stele di pietra scheggiata, in cima alla quale è posta una specie di edicola con una scultura in legno, il mezzo busto irriconosc­ibile di un ragazzo senza nome. Ecco: non c’è un nome, una data, un segno. Forse per questo, nel corso del tempo, questa piccola radura è stata usata come bagno all’aperto, deposito di spazzatura? Oggi qualcuno — dopo l’ennesima protesta — l’ha (in parte) ripulita. È qui, sotto un velo di sabbia, che il cane di un maresciall­o in pensione un giorno di marzo del 1969 trovò il corpo di Ermanno Lavorini, 12 anni, di Viareggio. Un pomeriggio di gennaio era uscito di casa con la sua bici rossa ed era stato ucciso nel giro di poche ore, all’antivigili­a di Carnevale. Il primo minorenne vittima di un sequestro nel nostro Paese, un sequestro «finito male», la «fine dell’innocenza» (qualcuno scrisse) nell’Italia degli anni Sessanta. Su Google e negli archivi si trova (quasi) tutto: il caso mediatico, i depistaggi, i ragazzi di vita, i tentativi di linciaggio, le accuse infondate, il fango sugli omosessual­i, fino alla sentenza della Cassazione del 1977 che ha condannato per omicidio preterinte­nzionale (pene dagli 11 ai 9 anni) tre ragazzi di Viareggio, autori di un sequestro da 15 milioni di lire con cui volevano finanziare il loro gruppuscol­o di estrema destra. Ma qui non c’è un nome, non un segno che induca la gente a ricordare Ermanno, a mostrare rispetto, lasciando che la natura incontamin­ata continui a crescere intorno al suo ricordo.

Tommy, la sua oasi

Dall’altra parte dell’Appennino, Sant’Ilario, tra Parma e Reggio Emilia, il bosco lungo l’argine dell’Enza. Anche Tommaso Onofri, come Ermanno Lavorini, fu ucciso e nascosto dai suoi rapitori assassini sotto pochi centimetri di terra e fieno. Ad aprile sono passati dieci anni dal ritrovamen­to. In galera i responsabi­li, muratori che volevano arraffare qualche soldo sequestran­do un bambino di 17 mesi, per poi colpirlo a morte la sera stessa del rapimento, con un badile, poco lontano da casa. Il papà di Tommaso è morto qualche anno fa. Paola, la mamma, ha raccontato di andare spesso sull’Enza: «Non so perché ma mi sembra di sentire la presenza di Tommy più che al cimitero. Quel posto per me è un luogo di pace».

Diverse volte Paola Onofri ha denunciato la presenza di spazzatura sul ciglio della strada del Taglione, al primo cippo che segnala il sentiero che va verso il fiume. Per l’anniversar­io quest’anno devono aver fatto una bella ripulita, gli amici dell’associazio­ne «Tommy nel cuore», perché in un pomeriggio d’estate la radura del delitto appare un’oasi di tranquilli­tà nella canicola padana. La «presenza» di Tommy è, per così dire, ecologica: fa bene all’ambiente. L’erba tagliata, una grande pietra, le foto appese con le mollette di legno, i peluche, i messaggi, il rosmarino e un bellissimo fico, un pinetto piantato un giorno di Natale, le cicale. E t ut t ’ i ntorno, tra il fiume e il terrapieno oltre il quale cominciano i ca mpi col t i - vati, un’atmos fe r a da bo - sc o pr i mordiale, un angolo senza tempo, con decine di fili di ragnatela a proteggere il sentiero. Una collaboraz­ione tra umani e natura. Dove il ricordo di un bambino, pur nello strazio della sua vita recisa, fa vibrare l’aria.

I fantasmi di Toiano

Lo chiamano «paese fantasma». Toiano, tra le colline pisane e i calanchi di sabbia verso Volterra. Una vista magnifica, un castello diroccato di epoca medievale, una chiesa sconsacrat­a dove è parcheggia­ta un’auto fuori uso, il piccolo cimitero, abbandonat­o come tutto il resto. L’acqua corrente non è mai arrivata. Oggi, più gatti che umani. L’unica coppia che vive e stende i panni tra le case abbandonat­e — una restauratr­ice di mobili (nonna nata qui) e il marito muratore (nato in Albania) — si fa portare le risorse idriche con l’autobotte.

Il 5 giugno 1947 Elvira Orlandini, 22 anni, l’acqua va a prenderla alla fonte, nel bosco più giù, località Botro della Lupa. La trovano sgozzata. Viene arrestato il fidanzato, il reduce e compaesano Ugo Ancillotti. Il delitto del Corpus Domini appassiona (e distrae) l’Italia del Dopoguerra. Al processo di Firenze la gente di Toiano si schiera compatta dietro il cartello: «Ugo innocente». Anche se in aula Ancillotti non convince. Arriva addirittur­a ad accusare «un ignoto montenegri­no», a suo dire contrario alle nozze. Rigetta come infondata la confidenza fatta dalla

vittima a un’amica, secondo cui qualche settimana prima del delitto — particolar­e che colpisce l’opinione pubblica — andando in città con Elvira per scegliere l’anello, il fidanzato non glielo volle comperare d’oro. Tanto, le disse, «per te va bene anche un falso».

Le repliche «impacciate» dell’imputato in aula le racconta anche il «Corriere», 1-2 luglio 1949, in una prima pagina dominata dai corridori del Tour de France e da questo titolo: «Oggi la legge per sfoltire la massa degli statali». Quello del Corpus Domini resterà un delitto senza colpevole: Ancillotti sarà assolto per insufficie­nza di prove. Tornerà a vivere a Toiano. Non per molto, come tutti i suoi abitanti. Sulla strada che porta a Palaia, nel bosco del Botro della Lupa, un cippo con un volto sorridente ricorda «la bella Elvira». Tra le case diroccate sulla collina, la natura avvolge il paese intero.

Melania sotto gli alberi

La pineta sta proteggend­o anche il posto di Melania Rea. E pensare che il sindaco di Ripe di Civitella nel 2012, un anno dopo il delitto, aveva annunciato un progetto «di riqualific­azione»: in ricordo della ventinoven­ne uccisa dal marito, il boschetto delle Casermette doveva diventare «un parco avventura, a misura di bimbi e famiglie». Sul terreno intorno al chiosco chiuso, sotto le conifere dove 35 coltellate uccisero Melania, tra i tavoli e le panchine di legno dei picnic, adesso c’è un discreto tappeto di pigne. L’erba alta e i fiori di campo, in questo lembo di Parco Nazionale del Gran Sasso «premono» intorno alla scena del delitto. Silenzio, sole che filtra dagli alberi alti. L’atmosfera di un eremo, altro che parco avventura. Su un tronco la sua foto, le testimonia­nze d’affetto, un disegno protetto da una busta di plastica trasparent­e: una casa, una scritta in stampatell­o, grafia infantile, «mamma», «Vittoria».

Il cartello che dalla strada porta al Chiosco della Pineta è rimasto con la segnalazio­ne di allora: «aperto». È la strada che sale da Ripe a essere chiusa. Uno smottament­o, una frana, l’hanno (miracolosa­mente?) interrotta un anno fa. Da giù passa solo qualche auto locale, di sfroso. Sull’asfalto alberi caduti. E ancora pigne che nessuno schiaccia. Certo si potrebbe arrivare in macchina dall’altra parte, da Colle San Marco, dove l’assassino Salvatore Parolisi — condannato in Cassazione a 20 anni di carcere — aveva inscenato la scomparsa della moglie, il 18 aprile 2011; ripercorre­re il tragitto che fecero quel pomeriggio, quando con la piccola Vittoria di 18 mesi sul seggiolino posteriore proseguiro­no fino a un posto tranquillo dove magari, con la bambina addormenta­ta, fare l’amore: questo boschetto, dove un cercatore di funghi, due giorni dopo, trovò il corpo di Melania sotto un albero, di fianco al chiosco. Si potrebbe, ma è meglio così: arrivare a piedi, in punta di piedi, con il respiro profondo, come si sale una montagna.

Nel pozzo di Avetrana

Un contadino che cura una giovane vigna consiglia di tornare indietro e prendere lo sterrato oltre la masseria, subito dopo la torre dell’acqua, verso contrada Mosca. Avetrana, Puglia, estate. Forse non c’è terra dove le cicale cantino così forte tra gli ulivi come in questo angolo di Salento. Il posto di Sarah è sul ciglio della strada. Nel 2013 un mastro muratore di nome Cosimo, 90 anni, di Manduria, con il permesso della famiglia ha eretto una stele commemorat­iva: oggi fiori secchi, la foto di Sarah con i capelli lisci, un lumino di padre Pio.

Il pozzo-cisterna dove il 6 ottobre 2010 fu ritrovata Sarah Scazzi stava poco più in là, sulla sinistra della stele. Uno scavatore l’ha ricoperto di terra. La vigna è abbandonat­a, i tralci di vite bruciati, per incendio naturale o intervento umano. Il proprietar­io del terreno, già l’estate dopo il delitto, aveva raccontato: «In quel fondo maledetto non vuole lavorare più nessuno». Anche chi è stato condannato per l’omicidio della quindicenn­e — la cugina Sabrina Misseri, la zia, Cosima Serrano — in passato aveva lavorato proprio lì, tra quei filari ora bruciati, alla vendemmia. Mentre lo zio Michele Misseri, condannato con il fratello Carmine per il reato di soppressio­ne di cadavere, aveva aggiustato il pozzo in cui un giorno di fine agosto infilò il corpo della nipote.

È il canneto che si muove nel vento, intorno alla colonna con la foto di Sarah, ad avvolgerla con leggerezza. A darle respiro. A far pensare al mare, al mare dove quel giovedì d’estate lei credeva di andare a fare il bagno con la cugina e le sue amiche.

L’erba di Yara

Dall’altra parte dell’Italia, Chignolo d’Isola, provincia di Bergamo, altri steli si piegano al vento, verso il campo dove pochi mesi dopo l’omicidio di Sarah fu uccisa un’altra ragazza. Due quasi coetanee. Yara Gambirasio aveva tredici anni. Il mese scorso per la sua morte è stato condannato all’ergastolo Massimo Bossetti. Non ci sono foto sul muretto di Yara, tra i fiori veri e di plastica. Su una specie di altare improvvisa­to, sassi, peluche, ricordini, la bandiera blu dell’Atalanta con un profilo che sembra di donna. Steli di erbe alte, ciuffi di deschampsi­a, le proteggono le spalle.

Più oltre, sul terreno dove Yara fu lasciata un giorno di fine novembre e dove fu ritrovata esattament­e tre mesi dopo, in mezzo al fango e alle sterpaglie — con la maglietta di Hello Kitty, il giubbotto nero e i leggings che indossava il pomeriggio che andò in palestra — adesso c’è un labirinto verde e fitto di pannocchie. Sembrano montare la guardia, proteggere lo spazio. Al di qua, lungo il viale a fondo chiuso e i parcheggi dei capannoni, gli appassiona­ti di veicoli radiocoman­dati venivano spesso a giocare. Prima. Nessuno più fa correre le automobili­ne. L’uomo che ritrovò Yara, andando a recuperare nella brughiera il suo piccolo aereoplano, ha cambiato pista. Intorno, la tipica atmosfera da campagna lombarda, quella ibrida, dove le fabbriche si sono incuneate tra le coltivazio­ni. Dietro la recinzione industrial­e affacciata sul campo di mais, una presenza che mai ti aspetteres­ti. Un vecchio barcone di legno scolorito. Doveva essere lì anche la notte in cui Yara è rimasta sola. Per tre mesi aggrappata alla terra che oggi protegge il suo ricordo, un ciuffo di erba stretto fra le dita.

La vigna in contrada Mosca è bruciata. Nessuno voleva più lavorare qui. Il monumento a Sarah è il regalo di un muratore novantenne. Le canne al vento ricordano il mare, dove lei credeva di andare con le amiche quel pomeriggio

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Le vittime Da sinistra: Pia Rontini (18 anni al momento dell’assassinio), Claudio Stefanacci (21), Pasquale Gentilcore (19), Stefania Pettini (18), Fabio Tollis (16), Chiara Marino (19), Milena Sutter (13), Ermanno Lavorini (12), Tommaso Onofri (17 mesi), Elvira Orlandini (22 anni), Melania Rea (29), Sarah Scazzi (15), Yara Gambirasio (13)
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