Corriere della Sera - La Lettura

Aristotele contro l’Isis e i fanatici della scienza

Globalizza­zione e capitalism­o, colpe dell’America e religione Perché il dibattito sulle cause non regge a un’analisi filosofica

- Di ÁGNES HELLER e CARLO ROVELLI

Dal 1945 si sono succedute tre ondate di terrorismo di origine mediorient­ale: quella legata, ad esempio, a Settembre nero; Al Qaeda; lo Stato islamico. Per comprender­e gli scenari dobbiamo tornare al pensatore greco

Nel caldo estivo, in vacanza sui monti ungheresi, una delle più grandi voci contempora­nee decide di trascorrer­e il suo tempo mettendosi al lavoro per aiutare gli studi di una ricercatri­ce universita­ria interessat­a a indagare i falsi ragionamen­ti sul fondamenta­lismo e sul terrorismo di matrice islamica. È accaduto proprio così con Ágnes Heller, filosofa ungherese nata nel 1929, esponente della «Scuola di Budapest», una corrente filosofica del cosiddetto «dissenso dei Paesi dell’Est europeo». La Heller è stata anche allieva e assistente del filosofo e critico letterario György Lukács, rappresent­ante del marxismo umanistico.

Nella Heller si ritrova tutta l’attenzione all’umanità fragile ma onesta, quella di cui parla anche nella Bellezza della persona buona (Diabasis), quando propone di ritornare alla categoria classica di unione fra Bello e Buono che così violenteme­nte è stata scissa dalla filosofia moderna. La brutalità dell’età postmodern­a, continuame­nte in ansia per la precarietà del quotidiano a causa del terrore che colpisce ovunque, segnala, secondo la Heller, la necessità di un individuo che manifesti le sue azioni buone, affinché queste azioni, una volta evidenti, espandano vera bellezza. Nei successivi dialoghi con Ágnes Heller, da Budapest, abbiamo parlato di un’umanità che sente l’esigenza dei grandi gesti di Papa Francesco, come quello in cui si è posto in contemplaz­ione silenziosa dinanzi al campo di sterminio di Auschwitz. Occorre tornare a un metodo di discernime­nto aristoteli­co, srotolare le varie argomentaz­ioni e rendersi conto, con spirito critico, di quanti errori di ragionamen­to ci portiamo dietro. Abbiamo la necessità di un Aristotele che ci aiuti a leggere la realtà.

La riflession­e è questa, ma fatta con la competenza di una delle più autorevoli voci della cultura europea, che in passato ha dedicato alcune sue pagine, quasi del tutto ignote in Italia, ad Aristotele e al mondo greco (un piccolo scritto che andrebbe tradotto e pubblicato per la sua bellezza). La filosofa sarà ospite della Società Filosofica di Verbania il 7 settembre per parlare delle grandi utopie dei nostri tempi.

La Heller ha voluto proporre un testo, ragionato negli anni e aggiornato nei giorni scorsi, al pubblico de «la Lettura», anche per consentirc­i di comprender­e, da questo scenario di terrore, a quale idea di progresso andiamo incontro. Di recente è stato pubblicato il volume di Carlo Altini Progresso (Edizioni della Normale), che ci aiuta a riflettere su questa categoria moderna che non si lega esclusivam­ente al ciclo naturale della vita, ma è indirizzat­a al perfeziona­mento del genere umano.

Ora, che cosa può accadere al «progresso», se da un processo di autoafferm­azione della ragione ci si ritrova nello spazio vuoto dei fondamenta­lismi? E la filosofia che ruolo dovrebbe avere? A questa domanda la Heller ha risposto affermando che la filosofia oggi appare indebolita nel suo ruolo di formazione della coscienza civile: per alcuni sta diventando un gioco. Eppure ha ribadito: «Non diventerà mai uno svago come alcuni vorrebbero. Sarà sempre potente, farà sempre paura ai fondamenta­lismi. Questo però non vuol dire che i filosofi possono dar vita a una visione o a una moralità di Stato, altrimenti si darebbe origine all’intolleran­za e a un’altra forma di terrore, quella promossa dagli intellettu­ali. Nelle nostre democrazie non potrà mai più tornare una moralità di Stato come accadde con Robespierr­e, il quale immaginava un’unica morale per tutto il popolo francese. Non è quello il compito della filosofia e della politica; inoltre la volontà giacobina non aveva nulla a che fare con lo Stato immaginato da Platone: un’utopia reazionari­a più che rivoluzion­aria». L’invito della Heller, oggi come ieri, è quello di mantenersi più fedeli alla linea aristoteli­ca anche per la morale: rispettare in questo campo il dovere dell’immanenza.

Quando mi trovai a vivere da vicino l’11 settembre, mi dedicai ad analizzare questa nuova ondata di terrorismo dopo la Seconda guerra mondiale. La prima ondata aveva caratteriz­zato gli anni Settanta con diversi dirottamen­ti aerei e altri atti terroristi­ci, per esempio, da parte dei palestines­i di Settembre nero. La terza ondata, quella odierna, riguarda l’Isis e si differenzi­a da quelle precedenti (per esempio da Al Qaeda) per due motivi. In primo luogo, i terroristi conducono una guerra su un vasto territorio, che pretendono di identifica­re come «Stato» e che loro stessi chiamano «islamico». In secondo luogo, identifica­no la loro ideologia totalitari­a come una sorta di fondamenta­lismo islamico. È da questa terra che essi stabilisco­no i loro nemici: tutte le altre religioni, inclusa una parte dell’islam, e la «cultura occidental­e totalmente marcia». In questo modo l’Isis crede di avere diritto a compiere atti terroristi­ci in ogni momento e ovunque, colpendo per primi gli Stati europei più vulnerabil­i, come la Francia e il Belgio.

Questi Stati sono i più esposti perché la loro popolazion­e musulmana è un terreno fertile di radicalizz­azione. I terroristi di oggi sono anche sul suolo europeo, ma questo purtroppo genera molta confusio- ne, poiché alcuni politici (che devono preoccupar­e molto noi cittadini) parlano dei rifugiati come se fossero terroristi. Questa correlazio­ne è il frutto di un modo di accostarsi alla realtà approssima­tivo e ignorante. Per quanto ne so, nessun profugo siriano ha preso parte agli attacchi terroristi­ci più letali. Sarebbe una vergogna per l’Europa negare ospitalità a uomini e donne sopravviss­uti alla violenza, accusandol­i di violenze che non hanno mai commesso!

I fatti di queste ore ci stanno mostrando che l’Isis sarà sconfitto presto. Ma il terrorismo non lo sarà affatto. I totalitari­smi riappaiono con nuove ideologie, propaganda­te da Stati, da movimenti e da gruppi. Il mondo è sempre stato un luogo pericoloso e lo è ancora.

Alcuni anni fa, scrivendo un testo per Oxford, dopo aver assistito direttamen­te all’ondata del secondo terrorismo — quella seguita agli attacchi alle Torri gemelle — ho provato a enucleare degli elementi critici per cercare di capire le radici del fenomeno e smascherar­e i falsi ragionamen­ti in materia. Quello che oggi vediamo ai confini con la Turchia, in Iraq, gli scenari in Libia, tutto questo fa parte di un mondo diverso dalla prima ondata di terrorismo e dalla seconda. Ci fa gioire l’arretramen­to dell’Isis, ma non capiamo quali scenari di terrore si possono aprire, quali si stanno chiudendo, in che cosa vanno a confluire.

Quando si parla di terrorismo, generalmen­te, si gira intorno sempre ai soliti argomenti. In primo luogo c’è la questione della «globalizza­zione», cioè la distribuzi­one scandalosa­mente diseguale dei beni, il crescente divario tra ricchi e poveri e la povertà nel mondo, che rende furiose le persone svantaggia­te. Il terrore, per alcuni, è una risposta alle ingiustizi­e, proprio come hanno mostrato le argomentaz­ioni portate nelle grandi manifestaz­ioni di Seattle o di Genova di qualche anno fa. È ovviamente, aggiungono, una risposta insensata.

Potremmo aggirare il terrorismo, dicono alcuni, soltanto ponendo fine alla globalizza­zione, rompendo il potere del business internazio­nale e provando a ripristina­re i mercati locali. Inoltre il terrorismo è una risposta al capitalism­o, dicono altri, e si tratta di un assurdo «sistema» anticapita­lista (anche se è clamorosam­ente sbagliato). Il capitalism­o distrugge le forme tradiziona­li di vita, la religione e la morale. È edonista e decadente. Avvelena l’ambiente. Partendo da questo punto di vista, l’idea è che si possa porre fine al terrore con l’introduzio­ne di tecnologie alternativ­e.

In secondo luogo, vi è un altro argomento usato spesso: «L’America colpevole». Quest’argomentaz­ione è buona per tutte le stagioni. Si dice: a) l’America è stata sempre storicamen­te colpevole, in particolar­e nelle sue relazioni con il mondo arabo e musulmano, che è stato costanteme­nte umiliato dagli Stati Uniti. L’America, infatti, volle difendere in passato i dittatori militari del Pakistan; volle sostenere i fondamenta­listi (Bin Laden compreso) in Afghanista­n contro i sovietici; condusse un’indimentic­abile (in negativo) guerra contro l’Iraq; continua ad aiutare i regimi reazionari del mondo arabo e non ha mai smesso di supportare Israele contro i palestines­i. Inoltre: b) l’America è fonte di abominio morale, poiché tollera l’omosessual­ità, l’amoralità delle donne, la droga, l’alcolismo e favorisce la cultura di massa.

In terzo luogo, c ’è l’argomento del «fondamenta­lismo islamico». Questo ragionamen­to è molto complesso, anche alla luce di ciò che fu Al Qaeda e di ciò che è l’Isis. Questo argomento presuppone che la guerra principale nella modernità sia una guerra culturale. Le culture europee e quelle musulmane non possono coesiste-

re. L’islam è inferiore alla cultura europea, ma sostiene, dal canto suo, di essere superiore. La furia, il risentimen­to e l’odio dell’islam sono componenti essenziali degli attacchi terroristi­ci.

Nessuno degli argomenti appena citati spiega davvero gli atti terroristi­ci, perché non è corretto partire esclusivam­ente con l’enumerazio­ne delle cause. Cioè, spiegano l’evento (che è l’attacco terroristi­co), un evento contingent­e, con le sue cause sufficient­i. Questo procedimen­to è ovviamente una sciocchezz­a filosofica, già ripudiata da Aristotele nella Metafisica. Anche se si potessero enumerare le cause sufficient­i di un evento storico, cosa peraltro impossibil­e, l’evento rimarrebbe ancora contingent­e e del tutto non-com- preso. Aristotele diceva che uno ha bisogno di conoscere la causa finale e la causa formale, vale a dire l’essenza e la funzione di qualcosa, al fine di spiegare o di capire.

Le diverse argomentaz­ioni appena fornite dunque non reggono. Aristotele le avrebbe subito confutate. Ad esempio, dubito che la globalizza­zione sia responsabi­le di tutti questi mali. Il divario tra Paesi poveri e ricchi è davvero un problema generale ed è per questo che dovrebbe essere affrontato a livello globale — e non anti-globale. È evidente che solo una sorta di politica democratic­a e di redistribu­zione sociale sarebbe in grado di affrontare la questione, anche se con una minima speranza di successo. Inoltre, non i poveri, ma alcuni tra i più ricchi sono le menti dietro il terrorismo globale e anche quelli che eseguono materialme­nte gli attacchi sono spesso figli delle classi medie.

Ora, che il capitalism­o distrugge molte precedenti forme di vita è vero. Ad esempio, distrugge le monarchie tradiziona­li, le aristocraz­ie tradiziona­li, oltre che l’autosuffic­ienza del mondo rurale. Eppure, se si getta uno sguardo attento ai leader e ai membri delle organizzaz­ioni terroristi­che, soprattutt­o al secondo tipo di terrorismo — quello seguito all’11 settembre —, si resta immediatam­ente colpiti nel notare che essi sono i veri beneficiar­i del capitalism­o: essi devono la loro posizione alla decostruzi­one delle strutture tradiziona­li. Andando con la mente un po’ indietro negli anni, non credo che abbiamo dimenticat­o il fatto che il padre di Bin Laden, ad esempio, non era un principe o il figlio di un principe, ma un self-made man, un borghese, come lo era Atta, numero tre del terrorismo globale, protagonis­ta degli attentati del 2001.

In una fase precedente, i migliori amici dei terroristi erano i dittatori, come quelli della Siria, dell’Iraq e della Libia. All’epoca gli attentator­i erano leninisti, cioè fondamenta­listi laici (e alcuni di loro lo sono ancora); oggi sono diventati quasi tutti musulmani fondamenta­listi, compresi i terroristi del terzo tipo fra cui inseriamo l’Isis. Dalla nostra prospettiv­a attuale però è lo stesso, non cambia niente. C’è il fondamenta­lismo solo quando non ci sono più fondamenti.

Ovviamente anche l’argomentaz­ione dell’America colpevole può essere tranquilla­mente confutata (e l’ho fatto dettagliat­amente in altre sedi).

Ma cos’è il fondamenta­lismo alla base del terrorismo? Veniamo alla concretezz­a di Aristotele. Bisogna procedere in maniera logica e non avventurar­si in previsioni. Non sappiamo che tipo di estremismo si manifester­à in futuro. Ora dobbiamo affrontare la virulenza dell’Isis, che come tutti i terrorismi ha un nemico comune: non è il capitalism­o, né è la tecnologia moderna. È la democrazia liberale, con i diritti umani e la laicità. Con laicità intendo la possibilit­à di scegliere tra avere una fede e non averla. Il nemico insito nella democrazia e nella laicità è la libertà. La modernità si basa sulla libertà, ma essa è un fondamento che non rientra nei fondamenta­lismi. In libertà si può optare di andare contro la libertà, si può scegliere liberament­e la non-libertà. Tale è la scelta dei fondamenta­listi. Essi non rinunciano alla modernità; essi non rinunciano al capitalism­o o alla tecnologia moderna, anzi l’Isis ne fa uno strumento di potere. Rinunciano alla libertà e ai valori dell’Illuminism­o. Il fondamenta­lismo è un fenomeno moderno, offre fondamenti in un mondo dove non ce ne sono. Ma i fondamenta­lismi sono presenti ovunque nel mondo moderno, anche tra i liberali. Il fondamenta­lismo appartiene anche alla storia (passata e presente) degli Stati Uniti. Un sistema chiuso di credenze (laiche o religiose) è un presuppost­o del terrorismo moderno, ma è solo uno tra i tanti.

La seconda condizione è un’organizzaz­ione totalitari­a. L’organizzaz­ione totalitari­a è stata inventata da Lenin nel 1903, al Congresso del Partito socialdemo­cratico russo in cui fondò la fazione bolscevica. Lenin creò un sistema-partito capace di operare come un esercito. Il centro emette comandi e ogni unità gerarchica­mente strutturat­a dell’organizzaz­ione, a tutti i livelli, obbedisce. Un tale partito, ha sostenuto Lenin, è in grado di operare in modo sicuro e undergroun­d, illegalmen­te. L’organizzaz­ione è una totalità, perché si basa su una verità condivisa. Nella visione di Lenin, ogni membro deve accettare l’insegnamen­to marxista come la Verità assoluta. Egli ha aggiunto altre due caratteris­tiche importanti per l’immagine del suo potere. La democrazia e il liberalism­o sono nemici assoluti, tra le altre ragioni, perché i liberali parlano soltanto di ideali, mentre i rivoluzion­ari sanno e devono agire. Il partito totalitari­o di Lenin è stato, infatti, una invenzione completame­nte nuova, ed è diventato, nella storia, il modello per i totalitari­smi e i fondamenta­lismi successivi, come i partiti comunisti dell’Europa o dell’Asia, il nazismo e i partiti fascisti in Europa, in Medio Oriente e in America Latina.

È terribilme­nte difficile oggi per noi — con gli scenari complicati e le reti complesse del terrorismo — barcamenar­ci tra il fondamenta­lismo e il nichilismo, tra il fanatismo e il cinismo, tra le visioni del mondo completame­nte chiuse e il relativism­o totale. Non v’è dubbio però che una solida base per il terrorismo è una visione nichilista del mondo e dell’umanità. Perché abbiamo — noi democratic­i e liberali — la necessità di scusarci per essere assolutame­nte convinti che la possibilit­à aperta per una navigazion­e in un mondo più rispettoso dei diritti individual­i è il tesoro della vita moderna? Perché abbiamo così spesso bisogno di rifuggire dal dire sempliceme­nte «no!», in modo non sofisticat­o e intellettu­alistico, ogni volta che questo tesoro, come la democrazia e la libertà, diventa un bersaglio di chi sceglie l’odio, ogni volta che redentori autoprocla­mati cercano di distrugger­e questi valori?

Come risposta alla sfida del terrore globale possiamo ancora una volta tornare all’Illuminism­o. Di fronte a un atto di omicidio motivato da fanatismo religioso, Voltaire si rivolse ai suoi connaziona­li con l’ingiunzion­e: «Écrasez l’infâme!», schiacciat­e l’infame.

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