Corriere della Sera - La Lettura
«Addio manifestazioni in strada Il potere si prende con le elezioni»
Agli inizi di giugno del 2011 i novantamila iscritti alla mailing list della rivista «Adbusters», punto di riferimento per la controcultura occidentale, ricevono una mail che recita: «L’America ha bisogno della sua Tahrir». A scrivere il messaggio che dà il via a Occupy Wall Street — il movimento che nell’autunno dello stesso anno monopolizzerà piazze e conversazioni in diverse città americane — è Micah White, senior editor della rivista canadese e attivista molto noto nella Baia di San Francisco. È lui, insieme al direttore di «Adbusters» Kalle Lasn, a guidare il movimento che il 17 settembre occuperà per due mesi Zuccotti Park a New York contro le diseguaglianze e lo strapotere di Wall Street.
Cinque anni dopo il «fallimento costruttivo di Ows» — così lo definisce — White, 34 anni, è diventato un professionista delle rivolte: ha fondato insieme alla moglie Boutique Activist Consultancy, un’agenzia che aiuta attivisti e politici a «fondare» movimenti e coordinarli; ha scritto un libro dal provocatorio titolo The End Of Protest, la fine della protesta; ed è candidato a sindaco di Nehalem, paese di 300 abitanti in Oregon. È da lì che risponde al telefono alle domande de «la Lettura».
Il Social forum che si è appena svolto a Montréal è stato giudicato un fallimento: pochi partecipanti, zero copertura mediatica, nessuna idea prodotta. Come mai?
«La nascita di un movimento rappresenta una rottura profonda nella società, ma se non lo alimenti rischia di diventare uno zombie. Quello anti-globalizzazione era basato su una tattica specifica — sabotare le riunioni dell’Organizzazione mondiale del commercio — che all’inizio è stata molto efficace: nel 1999 nessuno sapeva cosa fosse il Wto! La scelta di chiudere quell’energia umana nei tendoni dei forum sociali è stato il primo errore. Poi c’è stata la morte di Carlo Giuliani nel 2001 a Genova, che ha spaccato il movimento. Le manifestazioni globali per la pace, nate in risposta alle guerre in Afghanistan e Iraq, hanno fatto il resto, assorbendo le istanze dei no global. Nelle strade le loro marce lente hanno sosti- tuito gli spettacoli dei contestatori».
Che cosa pensa di Naomi Klein, autrice di quel «No Logo» considerato la bibbia del movimento?
«Non è un’attivista, è una giornalista. Le manca del tutto il pensiero tattico e strategico: non ha idea di come si crei e si porti avanti un’azione politica».
Qual è il rapporto tra il movimento antiglobalizzazione nato a Seattle nel 1999 e quelli che sono venuti dopo?
«È chiaro che molti, compreso Ows, nascono da lì. Per la prima volta persone di diversi continenti hanno cominciato a interrogarsi con strumenti sociali — conferenze, incontri, campagne, manifestazioni — su come potevano prendere il potere e usarlo per uno scopo comune. Nasce allora l’idea di un governo “globale” che operi attraverso gruppi sparsi».
Principi, temi e immaginari legati ai movimenti anti-globalizzazione non solo sono stati introiettati dal capitalismo, ma si ritrovano anche nei gruppi antieuropeisti di estrema destra. Come è potuto succedere?
«I movimenti sociali sono armi: tutto sta a come decidi di usarle. La sinistra non ha mai veramente capito come interagire con noi e così hanno lasciato il campo alle forze fasciste e anti-immigrazione. Per quanto riguarda le aziende, va moltissimo il protest washing ».
Cos’è?
«Ricorda quando le imprese volevano sembrare ecofriendly a tutti i costi? Adesso invece vogliono apparire cool e così copiano l’estetica e il linguaggio di chi “è contro”. Ma è un’illusione perché ci sono zone dove le corporation non potranno mai arrivare... E sa perché? Perché non vogliono cambiare sul serio. È come Hillary Clinton: non modificherà mai né se stessa né il mondo perché entrambi funzionano per i suoi scopi».
Pare di capire che non voterà per lei, nonostante la minaccia di Donald Trump presidente.
«È un gioco che fanno da tempo: distruggono il tuo potenziale rivoluzionario portandoti a votare contro le tue idee. Questo è il peggi o r da nno a l l ’a t t i v i s mo. È ve ro c he Trump è un razzista, ma non è sufficiente per votare Clinton. Io semplicemente non voto».
Voleva Bernie Sanders presidente?
«Non ho mai sostenuto Sanders. Lui è un esempio di quello che dicevamo: si è appropriato del linguaggio del passato per sedurre i giovani, ha usato la “rivoluzione radicale” per distruggere una rivoluzione possibile».
Ma lei cosa intende per rivoluzione?
«Un cambiamento nel sistema legale che porti le persone a intervenire modificando le leggi. Ci sono tre strade per attuarla: andare in strada a protestare, che è quello che ha fatto Occupy Wall Street e che fa Black Lives Matter (il movimento nato contro la violenza della polizia verso gli afroamericani, ndr); l’uso della violenza contro lo Stato, che sappiamo che non funziona perché il terrorismo di matrice politica non fa altro che rafforzare lo Stato; e infine ci sono le elezioni: prendere il potere usando gli strumenti della democrazia. È la strada vincente, quella che dobbiamo percorrere. Penso ad Alexis Tsipras in Grecia. Un esempio formidabile in questo senso l’avete anche nel vostro Paese con il Movimento Cinque Stelle».
La sua etichetta di rivoluzionario ha le maglie piuttosto larghe.
«Parlo di metodo, non di contenuti. I Cinque Stelle sono stati bravi a creare un modello di organizzazione e comunicazione politica che sfrutta internet al meglio».
Cosa pensa di Black Lives Matter?
«Secondo me non hanno capito la lezione del passato e credono che marciare in strada sia sufficiente per fermare le uccisioni da parte dei poliziotti e avviare un cambiamento in America. I movimenti devono prendere il potere, sono molto scettico con quegli attivisti che non cercano il confronto, perché non sono dei veri rivoluzionari».
Quale sarà il prossimo movimento di protesta?
«Immagino che un giorno ci sveglieremo e troveremo milioni di donne che marciano in strada e sfidano apertamente il potere: a casa, negli uffici, nelle piazze. Deve succedere prima o poi. E io posso già vederlo».