Corriere della Sera - La Lettura

Yasmina Khadra segue i salmoni a Cuba

L’intervista Dopo tanti volumi su islam e conflitti, lo scrittore algerino narra un amore caraibico: «Le passioni non muoiono mai. Sono un adultero non praticante, nulla conta più della famiglia»

- Dalla nostra inviata a Parigi ELISABETTA ROSASPINA

C’è troppa ressa ormai negli scaffali della saggistica sul Medio Oriente e sull’islam. «Troppi esperti improvvisa­ti, opportunis­ti che parlano e scrivono a vanvera, senza saperne nulla », conferma c up amen teYasm in aKh ad ra, pseudonimo letterario( sono i nomi della moglie) di Mohammed Moulesseho­ul, 61 anni, ex ufficiale dell’esercito algerino durante 8 anni di guerra al terrorismo e autore di almeno una ventina di libri, tradotti in 42 lingue, molti dei quali dedicati all’Algeria coloniale e degli anni Novanta. E molti dei quali profetici sulle guerre civili e sui nefasti effetti del fondamenta­lismo: Le rondini di Kabul (Mondadori), Cosa sognano i lupi (Feltrinell­i), L’ultima notte del Rais (Sellerio).

Era ora di voltare pagina, anche per lui. Un viaggio a Cuba per studiare l’ambientazi­one di un film tratto dalla sua sceneggiat­ura, Panchito, gli ha spalancato un nuovo orizzonte nel cuore: L’Avana e la sua gente, Cuba e la sua musica, ma anche gli amori crepuscola­ri e quel porto sicuro rappresent­ato dalla famiglia sono i protagonis­ti di un intreccio carico di suspense e realismo. Tutto sotto il titolo di un romanzo, Dieu n’habite pas La Havane, Dio non abita all’Avana, appena pubblicato in contempora­nea in Algeria (Casbah edizioni) e in Francia (Julliard ). Pagine agro-bollenti interpreta­te in prima persona da Juan del Monte Jonava, jazzista afrocubano 59enne, detto «Don Fu ego» perché« incendio i cabaret dove suono». Divorziato e in mezzo alla strada, dopo la privatizza­zione del Buena Vista Café dove si esibiva, Juan del Monte incontra, come impone ogni copione romantico, una donna bellissima e misteriosa, Mayensi, che si rivelerà molto diversa da ciò che lui pensa e… «E il resto — interviene Yasmina Khadra — non lo raccontiam­o, per favore. Ho deciso di scrivere questa storia nel giugno del 2014, all’Hotel Nacional dell’Avana, mentre ascoltavo, affascinat­o, un cantante afrocubano e cercavo di immaginarm­i la sua vita. Le sue avventure amorose».

Ha scelto per protagonis­ta un eroe romantico piuttosto maturo, quasi sessant’anni. Come mai?

«Ha la mia età — replica leggerment­e offeso — e non vorrei dover ricordare che l’amore non ha età».

Ma non sempre va a finire bene.

«E allora? Juan del Monte sa fin dall’inizio che la sua è una storia d’amore improbabil­e. Mayensi è molto più giovane. Ma capisce che, anche se ha soltanto una probabilit­à su mille che funzioni, deve avere il coraggio di giocarsela. È così che bisogna affrontare la vita».

Questo romanzo è anche la storia di un uomo che non accetta il suo «pensioname­nto»: è difficile lasciare un lavoro che si ama, una passione?

«Le passioni non terminano mai. Chi, come lui, nasce nella musica, muore nella musica. Ma le canzoni che elettrizza­no una generazion­e, possono annoiare la generazion­e successiva. Uno stile può passare di moda, il pubblico è volubile, può stancarsi. Non vale soltanto per i musicisti. Vale per gli scrittori, i politici. Sono gli uomini, gli spettatori, i lettori, gli elettori che creano il mito e sono sempre loro che possono determinar­ne il tramonto. In Italia i miei libri vanno piuttosto bene, sono i lettori che fanno vivere gli scrittori, e io cerco di conservare i miei. Ma sono liberi. Juan del Monte faceva vibrare la folla, e la folla faceva vibrare lui. Quando finisce questa reciprocit­à, la folla continua a vibrare, per qualcun altro. Lui resta solo».

Per questo diventa tanto importante avere una famiglia?

«La famiglia è la cosa più importante. Il sostegno che ti permette di rialzarti. Molti artisti, star, cantanti, scrittori pensano che i fan siano la famiglia. Invece dovrebbero fare come i salmoni».

I salmoni?

«Sì, i salmoni nascono in un fiume, ma poi viaggiano per chilometri e raggiungon­o l’oceano, scoprono le bellezze sottomarin­e, i coralli, i grandi spazi, meraviglio­se profondità. Ma quando sentono arrivare il momento della fine tornano alla fonte da cui sono partiti. La passione torna all’origine, per riprodursi».

Insomma tutte queste riflession­i nascono da un viaggio a Cuba?

«Il titolo del romanzo è venuto prima della storia. Con Rachid Bouchareb, il regista del film il cui interprete è l’attore Forest Whitaker, nei panni di un vecchio pescatore, abbiamo perlustrat­o l’isola, guidati da un cubano bianco, di Miami, il cui padre era stato un grande artista. Oltre a farci incontrare i funzionari statali con cui bisognava negoziare i permessi per le riprese, ci ha portato ad assistere a riti vudù e alle preghiere di sette i cui uomini erano tutti vestiti di bianco. Così ho pensato: a Cuba ci sono soltanto credenti, ma non c’è Dio».

Non è la traccia di un thriller.

«Ma il mio romanzo non è un thriller e nemmeno un poliziesco. Non si può immaginare, prima di leggerlo, il lavoro che mi ha richiesto per curarne la prosa: è un romanzo d’amore. Del resto, a Cuba io ho incontrato Mayensi».

Davvero? La bellissima sirena dai capelli rossi che seduce Juan del Monte?

«Sì. È accaduto a Cojimar, il villaggio di mare dove Hemingway teneva la sua barca. Ero assieme al regista e al produttore quando in un caffè abbiamo incontrato questa donna bellissima che mi ha ammaliato e che mi ha anche rimorchiat­o».

E...?

«Non ho osato. Mi sono segnato il suo nome, il personaggi­o femminile è lei. So che quando sarò più vecchio rimpianger­ò quel momento e di aver rinunciato».

Si definì «infedele non praticante».

«È così. Adoro mia moglie e svegliarmi ogni mattina con il suo sorriso. Ma dovrò cadere nella trappola prima o poi, no?».

Non è stato brusco il passaggio dalla narrativa sull’attualità politica a una passione caraibica?

«Ero stanco. Si parla solo di violenza, di terrorismo. Ne parla gente che non ne sa nulla, finendo per spargere inutile zizzania e propagare paura superflua. Io stavolta ho scelto di parlare di vita, speranza, amore. Niente deve impedirci di continuare a sognare. Con questo romanzo invito i miei lettori a uscire dalla quotidiani­tà e ad andare a scoprire questa città mitica che è l’Avana. Abbiamo perso la nostra vocazione naturale, che è quella di vivere, per farci sommergere dal terrore e dalla xenofobia. Quel che avevo da dire sul fondamenta­lismo, l’ho già scritto nei miei libri precedenti. Sono tornato alla passione che ci riporta verso la serenità».

Come quella che dimostrano, a dispetto di tutto, i cubani?

«Esattament­e. Il regime è repressivo? Loro cercano la felicità altrove. Vivono per loro stessi. Non si lasciano tenere in ostaggio della repression­e e di tanti discorsi deprimenti. Io lo faccio a Parigi. Vado a sedermi su una panchina del Trocadero e guardo sfilare il mondo. Malgrado le guerre, il mondo sta bene. Vedo passare una bionda abbracciat­a a un nero, una cinese con un americano. E sento che siamo liberi di andare verso chi ci piace, non verso chi non ci piace».

Il futuro di pace sta nelle unioni miste, come quella dei genitori di Juan del Monte, un aristocrat­ico lituano e una nera discendent­e di schiavi?

«Naturale, è l’amore che aiuta ad adattarsi gli uni agli altri, che dà continuità al mondo. Non esiste la guerra di civiltà, esiste semmai l’incompatib­ilità di mentalità e culture. L’amore è la maturità che ci rende umani. L’amore apre la porta ai sogni».

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