Corriere della Sera - La Lettura
Nostalgia, nostalgia canaglia Le nuove serie tv ci stregano così
Netflix consolida una tendenza del cinema di successo: il segreto di «The Get Down» e di «Stranger Things»
Nel 1688 il medico svizzero Johannes Hofer descrisse una patologia fino ad allora sconosciuta e che sembrava colpire solamente i mercenari elvetici al fronte, un «disturbo neurologico di origine demoniaca» che induceva in quei soldati svenimenti, indigestioni, febbre alta, dolori di stomaco e un irrefrenabile bisogno di rivedere le Alpi.
Alla fine del XIX secolo la nostalgia ancora veniva trattata alla stregua di un disturbo psichiatrico. Oggi non solo è considerata come una condizione psicologica perfettamente normale, è anche una leva particolarmente efficace per vendere qualsiasi tipo di prodotto. Soprattutto quando si parla di televisione.
Il 12 agosto Netflix ha lanciato uno degli show più costosi della storia — sicuramente il più costoso del suo catalogo —, si intitola The Get Down e racconta le origini dell’hip-hop nella New York degli anni Settanta. Più che una serie tv, è una macchina del tempo da 120 milioni di dollari progettata per trasportare il pubblico in quel calderone creativo che era il South Bronx dei graffiti, degli MC, dei DJ e dei bboy. Il creatore della serie, il regista Baz Luhrmann ( Moulin Rouge!, Il grande Gat
sby), ha concentrato buona parte degli sforzi in una riproduzione fedele (per non dire maniacale) dell’iconografia e dell’atmosfera che hanno fatto da culla al movimento che avrebbe cambiato il volto della musica moderna.
The Get Down va a inserirsi nel solco tracciato lo scorso inverno da Vinyl (altra serie ambientata nella New York di fine anni Settanta) ed è l’ennesimo esempio di quanto l’industria televisiva sia sempre più ossessionata dal proprio passato.
Prendiamo il caso più lampante, il fenomeno televisivo dell’estate: Stranger
Things (anche questa prodotta per la piattaforma di streaming Netflix). Un horror fantascientifico calibrato in modo da funzionare come rete da strascico per la generazione dei nati negli anni Settanta e Ottanta. La trama è a grandi linee la stessa di molte pellicole uscite negli anni Ottanta: quattro ragazzini poco popolari si ritrovano al centro di un mistero e sono costretti a risolverlo senza poter fare troppo affidamento sugli adulti. I rimandi a film come E.T., Stand By Me e I Goonies, sono talmente ubiqui che fin dalla prima punt at a è ch i a r o ch e gl i a u to ri , i Duf fe r Brothers, non si sono accontentati di confezionare un omaggio a un preciso imma- ginario, anche loro come Luhrmann hanno voluto trasportare letteralmente lo spettatore indietro nel tempo. Un tempo in cui i ragazzini giravano su bici monomarcia disegnando scie di luce nella notte, un tempo in cui le partite di Dungeons&Dragons potevano durare intere giornate, in cui la musica che si ascoltava era quella che qualcun altro aveva registrato e per comunicare in via confidenziale ci si poteva solo affidare alle goffe parole d’ordine dei walkie-talkie; un’epoca in cui non esistevano surrogati di vita sociale e la parola multitasking ancora non aveva fatto il suo ingresso nei dizionari; un modo di vivere che chi ha sperimentato in prima persona gli anni Ottanta, di solito, tende a rimpiangere.
L’enorme successo riscosso dai Duffer Brothers ha fatto molto parlare, ma non ha preso nessuno alla sprovvista. Sono anni che gli studios macinano incassi titillando riflessi culturali pavloviani (pensiamo alle ambientazioni di Donnie Darko e Super 8), per non parlare delle centinaia di milioni dollari investiti in remake, reboot e sequel. Negli ultimi tempi però questa tendenza sembra aver cambiato passo. Mentre al cinema continuano a uscire copie carbone come Guerre Stellari e Ghostbusters, parallelamente cominciano ad emergere film e serie tv che attingono gran parte del loro fascino da un’ambientazione spudoratamente retrò. I remake funzionavano perché davano al pubblico personaggi e storie che già conoscevano, questi nuovi prodotti funzionano perché immergono quel pubblico in un ambiente che già conoscono, un’epoca che probabilmente rimpiangono, un passato che può tornare solo in forma di pellicola: il South Bronx di The Get Down, la Manhattan di Vinyl, la provincia di Stran- ger Things, ma anche il campus universitario di Tutti Vogliono Qualcosa di Richard Linklater; mondi dai confini ben definiti, per cui esistono chiavi di lettura già collaudate.
La trama di una serie come Stranger Things potrebbe tranquillamente essere applicata su uno sfondo temporale diverso: la storia non cambierebbe molto, ma cambierebbe l’attitudine di quella grossa fetta di pubblico per cui è sufficiente una colonna sonora piena di synth e un gruppo di ragazzini bullizzati per raccogliersi in posizione fetale.
Questa tendenza può essere vista come una diretta conseguenza degli ultimi anni di crisi, di un orizzonte sempre più nebuloso e sempre meno invitante, di una condizione esistenziale talmente precaria da indurre sempre più persone a raggomitolarsi nel tiepido angolo dei ricordi.
È anche vero, però, che la nostalgia viene sfruttata nel marketing da molto più tempo, e non solo al cinema o in televisione. Uno studio intitolato Nostalgia Weakens the Desire for Money, pubblicato nel 2014 sulla rivista «Journal of Consumer Research», ha rivelato come i soggetti in cui viene indotto uno stato nostalgico abbiano la tendenza a dare meno valore al denaro e siano dunque più disposti a elar- girne. Non è un caso che negli ultimi anni tutti i maggiori brand (Coca-Cola, Lego, Microsoft...) abbiano fatto spudoratamente leva sulla nostalgia pur di attrarre e fidelizzare nuovi clienti, come non stupisce che negli ultimi mesi il passato abbia letteralmente fatto irruzione nel presente: basti pensare alla diffusione virale di Pokémon Go o alla resurrezione della storica console Nes.
In tempi non sospetti, il sociologo canadese Marshall McLuhan diceva: «Uno dei grandi sintomi della perdita di identità è la nostalgia, il revival dell’abbigliamento, dei balli, della musica, degli spettacoli». Oggi, qualcuno estrapola questa frase dal suo contesto (l’intervista televisiva del 1977: Violence as a Quest for Identity) per giustificare un ragionamento stancamente fatalista: poiché tutte le strade possibili sono state battute, poiché niente di nuovo può essere prodotto, non resta che riciclare. Ma ammesso e non concesso che nella televisione sia già stato detto tutto, è piuttosto chiaro che questo revival perenne non è frutto di un’esasperazione creativa, quanto di una strategia di marketing. Se Stranger Things abbonda di richiami agli anni Ottanta non è perché quell’ambientazione sia funzionale alla storia (che oltretutto, presenta molti elementi di novità) ma per lo stesso motivo per cui l’ultimo Guerre stellari è fatto con lo stesso stampino del primo e il recente Ghostbusters conta più cameo che attrici protagoniste: corrono tempi incerti, e nel tempo libero la gente non vuole esplorare territori accidentati, vuole sentirsi a casa. A prescindere dall’originalità di una storia, un vestito nostalgico renderà più semplice venderla. Se un film dirompente come Matrix uscisse oggi, probabilmente qualche produttore insisterebbe per in-
Suggestioni Il South Bronx di «The Get Down», la Manhattan di «Vinyl», la provincia di «Stranger Things»: più marketing che creatività
corniciarlo con un’ambientazione più iconica e riconoscibile.
Che cosa significa questo? Che ci stiamo trasformando in simulacri senza identità persi in un’alienante contemplazione del passato? Niente di così tragico, per fortuna. Negli ultimi anni diversi studi hanno cercato di spiegare come mai gli esseri umani, nel corso della loro evoluzione, abbiano sviluppato una predisposizione per un sentimento apparentemente deleterio: «Ha una funzione esistenziale cruciale», spiega Clay Routledge, ricercatore della Dakota State University e autore di studi sperimentali sulla nostalgia: «Ci riporta alla mente esperienze positive che ci assicurano di essere persone meritevoli con vite piene di significato. Le ricerche dimostrano che le persone che si abbandonano regolarmente a ricordi nostalgici riescono a gestire meglio l’ansia e la paura della morte».
Quando il dottor Johannes Hofer coniò il termine «nostalgia» (dal greco nóstos, ritorno, e álgos, dolore), era convinto di avere a che fare con una malattia di origine traumatica, dovuta ai danni prodotti alle cellule cerebrali di quei mercenari dal clangore delle campane delle mucche. Oggi non solo sappiamo che la nostalgia non ha niente a che fare con psicosi, mucche o possessioni demoniache, ma anche che probabilmente ha aiutato i nostri antenati a sviluppare un senso di continuità tra passato e presente, a tollerare i momenti di solitudine e di sconforto, a rielaborare la complessità della vita in una narrazione sensata. «In tempi in cui tutto accade sempre più velocemente — diceva McLuhan, sempre parlando di identità — abbiamo davvero poco tempo per adattarci alle nuove situazioni». E forse è proprio questo il punto: se siamo tanto vulnerabili ai film e alle serie nostalgiche è anche perché è un modo semplice e immediato per sentirci parte di qualcosa di importante, perché ci illudono di sapere chi siamo. Con grande gioia dei produttori televisivi.