Corriere della Sera - La Lettura

Stendhal, il romanziere più settecente­sco dell’800

Si chiude con Stendhal la serie estiva di Alessandro Piperno. Il romanziere de «La Certosa di Parma» e «Il rosso e il nero» è lontanissi­mo dai tre giganti che l’hanno preceduto su «la Lettura»: Flaubert, Tolstoj, Proust. Qui si spiega perché

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Flaubert, Tolstoj, Proust, i tre giganti di cui ci siamo occupati nelle scorse puntate, sono accomunati da un’idea malsana di letteratur­a. La malattia flaubertia­na si esprime in una maniacale perizia compositiv­a. Sebbene Tolstoj sia meno puntiglios­o, il suo genio non gli impedisce di contrarre un morbo spirituale capace di minare lo statuto stesso dell’arte. In quanto a Proust, la sua visione della narrativa è così patologica e totalizzan­te che gli permette la stesura di un solo immenso romanzo.

Nessuna di queste nevrosi romantiche ha mai minacciato la facile, incantevol­e, dirompente vena di Stendhal. Se giunge tardi alla narrativa è perché fino ad allora ha trovato di meglio da fare: vivere, fingere di lavorare, fare il turista, andare a teatro, plagiare spudoratam­ente opere altrui, innamorars­i con alterne fortune.

Un cialtrone di genio

Stendhal scrive così male (in senso flaubertia­no) che persino Balzac (il cui stile è tutto fuorché inattaccab­ile) arriva a biasimare la sciatteria de La Certosa di

Parma, invitando l’autore, che peraltro ammira, a correre ai ripari. Consiglio che Stendhal rispedisce al mittente. L’ipotesi d’abbellire un libro già pubblicato gli fa venire la nausea. Stendhal sarebbe stato la maledizion­e di qualsiasi editor coscienzio­so. Il suo lessico è povero, l’ortografia lasca, la sintassi farraginos­a, se ne infischia di ripetizion­i e cacofonie. Scrive con lo stesso spirito con cui conversa: per intrattene­re se stesso, gli amici e le donne su cui vuole fare colpo, per passare il tempo insomma; venute meno tali motivazion­i viene meno anche l’impegno.

Ci sono scrittori sempre a caccia di difficoltà, per dimostrare a se stessi e al mondo di saperle superare; Stendhal è più il tipo da vettura comoda e strada maestra. Non solo si diverte a raccontare storie, ma si diverte a sentirsele raccontare. La penna gli corre sul foglio come un surf in un mare in burrasca, ma il giorno che non gli va di scrivere ecco che si mette a dettare. Si rilegge di rado e senza grande entusiasmo. È scostante, impaziente, frettoloso, impreciso.

Avendo a cuore il singolo motto, l’intui- zione fulminante e soprattutt­o l’avventura, tralascia il disegno complessiv­o ed evita ogni verosimigl­ianza. Le sottigliez­ze stilistich­e lo annoiano, così come le arie da vate e da grand’uomo. Detesta gli intellettu­ali pensosi, i mandarini accigliati, i padreterni, gli ottusi maître-à-penser. È così che il più settecente­sco romanziere dell’Ottocento si difende dalle dottrine, dalle ortodossie, dalle Chiese. E Dio solo sa se in un’epoca come la nostra non sentiamo la mancanza dell’edonismo ateo di Monsieur Stendhal.

Se Flaubert punta tutto sulla letteratur­a in odio alla vita, Stendhal sceglie la letteratur­a per celebrare la vita che scivola via. Il che spiega forse perché i suoi pochi romanzi mettono in scena le gesta di giovanetti inesperti e pieni di ardore, in procin- to di sbattere il grugno sulle inevitabil­i sconfitte dell’età adulta.

L’eterno romanticis­mo degli inizi

Octave de Malivert, Julien Sorel, Lucien Leuwen, Fabrizio Del Dongo, i suoi famosi eroi, sono animati da quello che un lettore delicato come Stefan Zweig chiamava l’eterno romanticis­mo degli inizi. E cosa c’è di più romantico dell’inizio? Un amore sui banchi di scuola, un nuovo lavoro, preparare la valigia per un lungo viaggio. Ecco i doni che il vecchio Stendhal fa ai suoi giovani eroi: la rosata luce dell’alba, e con essa l’inesperien­za, l’ambizione, la speranza, e poi certo la delusione.

Brutto e sgraziato come Tolstoj, Stendhal, proprio come il grande poeta russo, ha un debole per la bellezza. Per questo i suoi imberbi eroi sono sempre d’un’avvenenza femminea che fa impazzire le donne. È l’unico vantaggio che offre loro. Per il resto, il mondo che questi ragazzi, ossessiona­ti dalla gloria personale, devono fronteggia­re è un ricettacol­o di ipocriti, snob, filistei che Stendhal disprezza, ma che in qualche modo comprende. Malgrado sia solito maltrattar­e i suoi personaggi (quasi senza eccezione), nel suo tono non ravvisi mai l’indignazio­ne di Balzac o il sarcasmo sprezzante di Flaubert. Stendhal giudica, è vero, ma lo fa sempre in modo sornione e conciliant­e. Non è interessat­o agli eccessi della virtù, ma semmai alle manchevole­zze del vizio, e poco importa se esso s’incarni in un gran signore di campagna, in una giovane aristocrat­ica o in un prelato verboso e vanesio.

L’abbaglio di Auerbach

Erich Auerbach sostiene che la novità della narrativa stendhalia­na consiste nella resa plastica di un certo periodo storico: la Restaurazi­one. Commentand­o una scena de Il rosso e il nero scrive: «Essa sarebbe pressappoc­o incomprens­ibile senza l’esattissim­a e particolar­issima conoscenza delle condizioni politiche, sociali ed economiche d’un ben determinat­o momento storico, cioè a dire della Francia poco prima della rivoluzion­e di luglio». Temo che almeno per una volta Auerbach non colga nel segno. Al mondo ci saranno milioni di lettori che hanno amato e compreso Il rosso e il nero senza sapere niente di Luigi Filippo o del Maresciall­o Marmont. Ridurre la narrativa a cronaca storica o a indagine sociologic­a è una tentazione a cui il critico deve resistere. È fin troppo ovvio che qualsiasi scrittore è incastrato nel suo tempo; così come è fatale che la conoscenza di tale contesto possa rendere più agevole la lettura, e talvolta persino più gustosa. Ciò detto, il dato prezioso de Il rosso e il nero, che ne fa un’opera fuori dal tempo, è la sua fiabesca universali­tà, la perpetuità metastoric­a.

Il realismo di cui Auerbach va in cerca non si trova nel milieu in cui vivono i personaggi di Stendhal, bensì nei loro cuori. Qualsiasi ragazzo può comprender­e, con uno sforzo di immaginazi­one, la smania di Julien Sorel di farcela, di arrivare, di riscattars­i. Qualsiasi ragazzo — di ieri, di oggi e di domani — conosce la frustrazio­ne dell’irrilevanz­a sociale e il terrore di non essere all’altezza delle proprie ambizioni. Forse il suddetto ragazzo oggigiorno non s’ispirerà a Napoleone, ma troverà sempre uno Steve Jobs o un Lionel Messi da emulare.

Il cuore dei personaggi

Le prime pagine de Il rosso e il nero (1830), sebbene in linea con gli incipit di moda in quegli anni, sono piuttosto deboli e sconclusio­nate. Stendhal ci porta a spasso per Verrières, paesino della Franca Contea, una regione montagnosa a est della Francia, soffermand­osi su segherie, latifondi e fabbriche di chiodi. Basta raffrontar­e questo inizio con gli attacchi di Eugénie Grandet (1834) o Illusioni perdute (1837), entrambi di Balzac, per rendersi conto di come Stendhal non abbia occhio né orecchio per gli ambienti. In Balzac c’è accuratezz­a, dedizione al dettaglio, fame di vita brulicante. A Stendhal interessan­o solo i personaggi, ma anche qui non in modo balzacchia­no. Se ne infischia dei lo-

La malattia flaubertia­na si esprime in una maniacale perizia compositiv­a. Il genio di Tolstoj, meno puntiglios­o, non gli impedisce di contrarre un morbo spirituale capace di minare lo statuto stesso dell’arte. La visione proustiana della narrativa è così patologica e totalizzan­te che gli permette la stesura di un solo immenso romanzo

ro abiti, della gestualità, dell’incarnato. A lui preme soprattutt­o auscultarn­e le anime, pronto a denudarle senza ritegno: desideri reconditi, grettezze, risentimen­ti di classe. Non è un caso che René Girard, nella sua ricognizio­ne intorno al «desiderio mimetico», si sia così lungamente soffermato su questo romanzo. L’ossessione di Stendhal per le Grandi Leggi che regolano i moti del nostro cuore è degna di un moralista classico. In un certo senso si inscrive nella linea tracciata da Laclos e da Jane Austen, e naturalmen­te anticipa Proust.

Le Grandi Leggi

Ammettiamo­lo: viviamo tutti nell’illusione che i nostri sentimenti siano inediti e originali; ci crogioliam­o nell’idea del- l’intricatez­za e complessit­à della nostra psiche. In realtà di fronte alle tristi circostanz­e della vita reagiamo tutti nello stesso modo maldestro e patetico. Se flirti con una ragazza su WhatsApp e lei di punto in bianco smette di rispondere ai tuoi messaggi marpioni e allusivi, ci sono buone probabilit­à che in un paio di giorni tu possa ritrovarti innamorato come un adolescent­e. L’orgoglio e l’amor proprio agiscono sulla nostra vulnerabil­ità con precisione algebrica.

È tale consapevol­ezza a muovere la penna di Stendhal. Gli eroi de Il rosso e il nero, intrappola­ti nella fortezza inespugnab­ile della coscienza, non fanno che rimuginare, vagliare, soppesare. Affetti da una spaventosa ciclotimia, sono sballottat­i su e giù in una specie di ottovolant­e emotivo. Per Stendhal vivere significa concepire strategie che ti permettano di affermarti, e allo stesso tempo di difenderti. Quest’idea gli sta talmente a cuore che monitora ossessivam­ente i pensieri di ciascun personaggi­o. Ci informa in tempo reale di ciò che Julien Sorel prova per Madame de Rênal o per Mademoisel­le de La Mole, e viceversa. Lo fa in modo implacabil­e. La regola che molti narratori s’impongono di mantenere un solo punto di vista viene violata di continuo da Stendhal, e questo, invece di disturbarc­i, ci galvanizza.

L’ultimo incontro amoroso

Pensate all’ultimo incontro tra Madame de Rênal e Julien Sorel, prima che quest’ultimo parta definitiva­mente per Parigi. La loro relazione amorosa, precipitos­a- mente interrotta da una serie di lettere anonime, è stata viziata sin dal principio dallo squilibrio sociale: Julien, figlio di un carpentier­e arricchito, non dimentica mai le sue ambizioni e i suoi rancori; Madame de Rênal, per quanto ci provi, è incatenata ai privilegi di casta e di censo. Durante i mesi che Julien ha passato in seminario, Madame de Rênal, catechizza­ta da un prete, si è pentita della scappatell­a extraconiu­gale con il giovanissi­mo precettore dei suoi bambini.

Come si vede l’intero impianto narrativo è romanzesco nell’accezione più deteriore del termine. Eppure siamo così emozionati quando Julien si rifà sotto. Il tutto avviene all’una del mattino. Il che non deve stupire perché in questo romanzo le cose importanti avvengono sempre al buio, forse perché garantisce la segretezza e protegge il sotterfugi­o (che non alluda anche a questo il «nero» del titolo?). È ironicamen­te stendhalia­no che i personaggi riescano a essere se stessi solo nell’ombra. Come se, in uno strano ribaltamen­to, fosse la luce a costringer­ci all’ipocrisia. D’altronde, la tenebra evita a Stend ha l la se c c a t u r a d i di l u nga rs i su l l a descrizion­e degli ambienti e dei nostri eroi. Sentiamo solo le loro voci e veniamo messi a giorno del fluire concitato dei loro pensieri. Lei fa di tutto per scacciarlo dalla sua stanza nella quale lui si è introdotto subdolamen­te. Quando lui si accorge che lei si rifiuta di dargli del tu ci resta malissimo. Il guaio è che se da un lato la cosa lo umilia, dall’altro incendia ancor più i suoi sentimenti. La signora sembra proprio risoluta. Il lavaggio del cervello del prete ha avuto effetto. Lei ha capito i suoi errori, e ora vuole che lui se ne vada e non torni più. L’idea che nei quattordic­i mesi in cui non si sono visti lei possa essersi disamorata mortifica ancor più il povero Julien. «Che vergogna per me — pensa — se mi faccio mandare via! Sarà un tale rimorso da avvelenarm­i l’esistenza».

Ecco che l’amore si tinge dei colori foschi dell’orgoglio ferito. A questo punto Julien non è spinto solo dal desiderio carnale, ma anche dall’orrore di essere umiliato e dalla smania di trionfo. Allora scoppia a piangere. Ma lo fa per puro calcolo, avvertendo in cuor suo «la disgrazia di diventare un freddo stratega». Capendo che deve giocare il tutto per tutto, le dice che forse questa è la loro ultima opportunit­à. È diretto a Parigi, non tornerà più. A Madame de Rênal basta sentire la parola «Parigi» per vacillare. Ma come? Lui sta per andarsene per sempre? Com’è possibile? A Parigi poi? Il luogo giusto per dimenticar­la. Avrà nuove avventure, altri amori. Questo sì che è insopporta­bile. Ora è il suo amor proprio a essere sollecitat­o. Un richiamo a cui la povera Madame de Rênal non sa resistere. È allora che gli si concede. E il commento dell’autore è di una precisione stupefacen­te per uno scrittore notoriamen­te tranchant come Stendhal: «Così, dopo tre ore di parole, Julien ottenne ciò che aveva desiderato appassiona­tamente durante le prime due. Se il ritorno alla tenerezza e la scomparsa dei rimorsi, nella signora de Rênal, fossero arrivati un po’ prima, gli avrebbero dato una divina felicità. Ottenuti così, con l’a r t i f i c i o, f urono s e mplicement­e un trionfo».

La felicità amorosa è sempre precaria, squilibrat­a e imperfetta, proprio come la vita.

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