Corriere della Sera - La Lettura
Storia di Enzo Ferrari l’uomo che creò il mito
L’uomo che creò il mito
Luca Dal Monte dedica una monumentale biografia al «più grande dei piccoli imprenditori di tutti i tempi» (Giunti-Giorgio Nada Editore). Sette anni di ricerche, quattro anni di scrittura: oltre mille pagine di testimonianze e documenti inediti. Qui sotto Edoardo Nesi, premio Strega, racconta il fascino di un’auto. Che per un’estate si ritrovò a guidare
In questi nostri giorni senza costrutto, mentre la pialla di internet continua a spianare ogni differenza tra pensiero e pensiero, tra azione e azione, tra vita e vita, mi sono molto divertito e in qualche misura confortato a leggere questo gran tomo che è Ferrari Rex, scritto da Luca Dal Monte, e a studiarne lo strepitoso apparato fotografico.
È la storia di Enzo Ferrari, il leggendario Drake, il più grande piccolo imprenditore di tutti i tempi, l’uomo che ha creato il simbolo principe di quella meraviglia che era il Made in Italy.
La Ferrari è sempre stata molto di più dell’automobile più bella del mondo. Era il vanto di un’Italia uscita dalla guerra devastata nel corpo ma fervida nell’animo, l’orgoglio di una generazione di poveri che volevano smettere d’esser poveri e si avviavano a sognare di ottenere il meglio della vita anche perché, come dimostrava la Ferrari, il meglio della vita erano capaci di costruire. Perché, per quanto fossero eleganti e rivoluzionarie come opere d’arte, a nessuno poteva sfuggire che le automobili del sogno nascessero invece da una piccola fabbrica che sorgeva tra Modena e Bologna e dal durissimo lavoro quotidiano di poche decine di operai specializzati: saldatori, meccanici, verniciatori, collaudatori che, mentre si sforzavano di far diventare realtà i progetti dei disegnatori e l’idea del Drake, raggiungevano l’eccellenza mondiale e cancellavano il comico stereotipo autarchico che decretava scadente per definizione ogni prodotto italiano.
Insieme alle ruggenti vittorie in Formula 1, credo fosse questo il segreto dell’amore incondizionato tra l’automobile più costosa del mondo e milioni di persone che mai avrebbero avuto i soldi per comprarsela: la quintessenza di emozione e desiderio che si faceva realtà fisica, persino carnale, nella Ferrari.
Mentre i francesi producevano macchinucce, i tedeschi corazzate senz’anima e gli inglesi dei gran barconi, a Maranello si creavano automobili meravigliose sulle quali ci si immaginava di poter vivere gli attimi più dolci che offre la vita: l’incanto della primavera e dell’estate, l’azzardo entusiasmante della velocità, la libertà d’animo di concedersi di spassarsela un po’ mentre pian piano si diventa vecchi.
Poiché possederne una era fuori questione, potevano amarla tutti, e ad amarla di più eravamo proprio noi che non l’avremmo mai avuta. Non c’era gran senso, infatti, a invidiare i pochissimi che vivevano l’onore di guidarla: il proprietario di una Ferrari passa sempre in secondo piano rispetto all’automobile e, con tutti i soldi che spende per comprarla, deve subito abituarsi all’idea di esserne solo il fortunato passeggero e mai il padrone, perché la sua Ferrari — ogni Ferrari, del resto — è nostra. Di noi che la ammiriamo. Di noi che la sogniamo.
Una volta sono stato a Maranello. Mi aveva invitato Luca di Montezemolo, che aveva letto Storia della mia gente e mi voleva conoscere. Ho visto i nuovi capannoni firmati dai più grandi architetti del mondo schierati intorno allo stanzone originale in muratura del Drake, come a proteggerlo dall’assalto del tempo. Ho visto le ragazze e i ragazzi lavorare in quelle officine (mi garba chiamarle così) pulite come sale operatorie e dotate di oasi di riposo per gli operai, che ogni tanto possono fermarsi a bere un caffè seduti su una panchina, all’ombra delle foglie di piccole palme phoenix piantate lì per loro. Ho visto il Reparto Storico — se poi si chiama davvero così, ero troppo emo- zionato per appuntarmi tutto — dove restaurano le vecchie Ferrari e le riportano a nuovo con la puntigliosità degli incontentabili, cancellando gli assalti crudeli del tempo a motori e carrozzerie e ricordi. Montezemolo mi venne incontro appena uscito da una riunione del Reparto Corse: un gran premio era andato storto e, benché sorridesse, aveva il volto tirato dalla rospata che mi immaginai avesse appena impartito agli ingegneri che lo seguivano. Ci stringemmo la mano e mi chiese subito: «Lei guida?».
Ora, io sono cresciuto in sella alle Vespe truccate, a tirare le marce e impennare e sfidare gli amici a chi arrivava primo al bar, e quando ho compiuto diciott’anni son passato a compiere più o meno le solite imprese con l’automobile, rinsavendo solo in seguito, molto in seguito. Non che mi senta un gran pilota — anche se poi codesta è tutta una questione di sistemi di riferimento, sia chiaro — ma piano non m’è mai garbato andare e, insomma, alla guida non sono così scarso. Ma ero a Maranello. Alla Ferrari. E me lo stava chiedendo Montezemolo, che da giovane aveva corso i rally e aveva passato buona parte della sua gran vita a veder guidare Lauda e Prost e Schumacher e Alonso. Scossi la testa. «Me l’aspettavo», disse, e mi portò a vedere l’ufficio di Enzo Ferrari che è stato mantenuto esattamente com’era quando era vivo il Drake, col portacenere e il telefono enorme e il portapenne e il passacarte di pelle. Poi si pranzò insieme e fatalmente si finì a parlare delle cose più belle della vita e si diventò amici.
Una Ferrari, poi, l’ho anche guidata. Per un’estate. Negli ultimi anni del secondo millennio, Alvaro Nesi — cugino di mio padre e suo socio nel Lanificio T.O. Nesi &
Figli SpA, l’azienda tessile di famiglia in quei giorni florida — ne comprò una. Gli veniva offerta da un amico caro e volubile che l’aveva tenuta per qualche mese e poi se n’era stancato, e dopo un breve tentennare Alvaro aveva ceduto al fascino di quella meravigliosa 456 GT color canna di fucile, il cui primo proprietario era stato Jean Todt. Per chi non abbia presente il modello, la 456 GT non era uno di quei ferini bolidi quasi sempre rossi in cui due e due sole persone si stringevano per essere proiettate verso il futuro da un otto cilindri di 3200 centimetri cubici che ringhiava alle loro spalle, distante solo poche decine di centimetri dalle loro orecchie, ma una ben più rara e regale Gran Turismo 2+2, che consentiva l’agio di un viaggiare moderatamente comodo anche a chi, pur avendo superato l’età dello sviluppo, si trovava a occuparne i sedili posteriori e aveva così l’occasione di contemplare il cofano invero maestoso, che ospitava un altrettanto maestoso motore a dodici cilindri disposti a V, dalla cilindrata di 5400 centimetri cubici e dalla potenza di 442 cavalli.
Non vi venga in mente di immaginarla una macchina da commendatore, la 456 di Alvaro. Era una bestia, e circolava la leggenda che Jean Todt l’avesse fatta toccare dal Reparto Corse, così da farle raggiungere una velocità massima persino superiore a quei 300 chilometri orari che dichiarava la Casa. L’ammirai da lontano per più di dieci anni, senza mai avere il coraggio di chiedere ad Alvaro di prestarmela anche solo per fare il giro di Narnali, la microscopica frazione di Prato in cui sorgeva la nostra ditta.
Avevo paura di non saperla guidare. In particolare mi preoccupava il momento della partenza, perché la frizione era molto dura e non ero sicuro di riuscire a controllare la potenza di quei quattrocento cavalli. E se mi fossi fermato dopo mezzo metro con quell’osceno singhiozzo in avanti che rivela di non esser riusciti a gestire l’acceleratore? E se invece, al contrario, fossi partito a vecchio, cioè con la frizione tirata e il motore che sale di giri mentre la macchina avanza le mme lemme?
Non era tanto il problema di fare una figuraccia di fronte ad Alvaro. Il problema ero io. Per come son fatto, o riuscivo subito a guidare la 456 — tipo Artù che estrae la spada dalla roccia — o non ci sarei riuscito mai. Non esisteva imparare. Se non ero all’altezza nemmeno di partire con una Ferrari, era meglio lasciar perdere e continuare ad ammirarla da lontano.
Col passare degli anni la 456 di Alvaro divenne una sorta di silente monumento familiare a un passato di benessere che, pur vicinissimo, pareva allontanarsi ogni giorno di più. Anche lui ne parlava sempre meno, e soprattutto per lamentarsi dei costi sempre più alti di bollo e assicurazione. Aveva preso a usarla solo per andare al Forte dei Marmi la domenica mattina, una volta al mese, tanto per non tenerla sempre ferma.
Poi il giorno di Natale del 2011 — avevo vinto lo Strega da qualche mese e tutti mi amavano — trovai il coraggio di andare a chiedere ad Alvaro se mi faceva il regalo di prestarmela per un giorno. «Un giorno solo, dalla mattina alla sera». «No, facciamo invece che il primo giorno di primavera vieni a prenderla e la tieni per tutta l’estate».
Venne il primo giorno di primavera e andai a casa di Alvaro. La 456 era parcheggiata davanti al cancello della sua casa al Podere Murato. Appena lavata. Scintillante. Mi fece sedere nell’abitacolo e avviò a spiegarmi i comandi e darmi consigli su come guidarla, ma io non ascoltavo. Non avevo occhi che per il Cavallino Rampante al centro del volante, per la clamorosa pelle color ceralacca dei sedili, per lo scultoreo cambio d’acciaio alloggiato dentro a una piccola griglia anch’essa d’acciaio che si incaricava di guidarne il viaggio entro i sei rapporti, per le due spie con le scritte 1-6 e 7-12 che segnalavano che questa automobile era spinta da un motore a 12 cilindri, e già mi pareva di capire la ragione della semplice, spartana bellezza del cruscotto, del volante stesso, delle leve, dei pedali, degli strumenti. Era qualità pura, depurata dal lusso.
E quando venne il momento di partire, ci riuscii. Bordeggiai per qualche frazione di secondo la partenza a vecchio, a dire il vero, ma partii, e andò tutto bene, e la guidai tante volte, poi, la Ferrari di Alvaro, in quell’estate indimenticabile, e imparai a dare gas solo quando le ruote anteriori erano perfettamente dritte, certo, ma a darlo, il gas, e certe volte a darlo proprio tutto, col cuore in gola e l’anima colma di gioia e ammirazione e riconoscenza mentre mi concedevo di godere di quegli attimi incantati che ogni tanto, con un po’ di fortuna, ci possono ancora toccare nella vita, mentre pian piano si diventa vecchi.