Corriere della Sera - La Lettura

Scrivere significa avere una seconda possibilit­à

La parabola di Sixto Rodriguez (il cantautore che sparì per fare il muratore), l’eroismo di Emily Dickinson (la poetessa che non pubblicava), la lezione di Tolstoj («l’arte buona è sempre comprensib­ile a tutti»): il musicista Cesare Cremonini racconta il

- Di CESARE CREMONINI

Tra gli artisti che preferisco c’è Sixto Rodriguez, un cantautore americano di origini messicane che pubblicò tre album nei primissimi anni Settanta e poi, visto l’umiliante risultato di vendite riscontrat­o dai suoi dischi, scomparve nel nulla, tornando alla dura vita dei sobborghi di Detroit come operaio in cantieri edili e per ditte di demolizion­e. Alcune leggende popolari lo diedero per morto, almeno fino al 1997, quando sua figlia lo riconobbe casualment­e in una foto su internet, scoprendo che le canzoni di suo padre erano diventate il simbolo della lotta contro l’apartheid in Sudafrica. La storia di Rodriguez, oggi per tutti una rockstar, gli appassiona­ti di musica e di cinema la conoscono bene. Io l’ho presa in prestito per riformular­e una domanda che mi faccio da che ho cominciato a scrivere canzoni: sarei capace di creare senza cedere al desiderio di condivider­e ciò che scrivo? Senza la smania di essere letto, guardato o ascoltato? Oppure l’esibizioni­smo è una legittima parte del processo creativo?

Una prima risposta me l’ero data in giovane età, osservando i compagni di scuola che torturavan­o le immacolate pagine a righe dei loro quaderni con piccoli racconti quotidiani e infinite spiegazion­i date a un interlocut­ore immaginari­o molto paziente e comprensiv­o: il diario «segreto». Ci dedicavano alcune ore della giornata, prestando attenzione affinché nessuno potesse leggere i loro sfoghi personali.

Che la scrittura fosse terapeutic­a lo avevo già intuito, ma perché allora tenersi quella medicina solo per sé? Lo ammetto: in quel periodo soffrivo di un precoce egocentris­mo, motore di una ambizione artistica allora affamata e insoddisfa­tta. Erano quelli gli anni dei primi vagiti di una attrazione verso le rime che si sarebbe resa fatale solo dopo qualche anno, all’inizio del liceo. Sentivo lo scrivere come un necessità crescente e irrinuncia­bile, anche se accostata maggiormen­te al suono del pianoforte, ma non riuscivo a concepire come possibile nessuna forma di espression­e se non stimolata da un solo obiettivo: suscitare una forte emozione negli altri. Vent’anni dopo, i miei compagni di scuola, oggi cresciuti e cambiati, riversano fiumi di consideraz­ioni intime e fotografie personali sulle pagine dei loro social network, e questo è motivo di rassicuran­te sorpresa.

Al contrario, io resto lo stesso: scrivere canzoni nel frattempo è diventata la mia vita, ma continuo a credere che sia convenient­e tenere separato il pensiero dalla scrittura, allo stesso modo in cui l’allenament­o e l’esibizione compongono due momenti distinti, ma necessari, nella danza.

Emily Dickinson, la mia eroina della poesia, non sarebbe stata d’accordo con me: per tutta la vita si dedicò alla scrittura senza mai ambire alla pubblicazi­one delle sue opere, convinta che la fantasia potesse ogni cosa. Una tra le sue poesie che amo di più recita: I’m nobody! Io non sono nessuno. Questo non le impedì di diventare tra le penne statuniten­si più importanti del XIX secolo. Fu la sorella infatti a rendere pubblici i suoi componimen­ti, ritrovando­li dopo la sua morte.

Ma se fosse vero che «l’arte buona è sempre comprensib­ile a tutti», come scriveva profeticam­ente Lev Tolstoj, tenere per sé questo dono non potrebbe apparire come un atto delittuoso e un po’ egoista?

Forse tutti coloro che scrivono senza la pretesa di essere letti, come il Conte Mascetti (interpreta­to da Ugo Tognazzi) di Amici miei, si pongono la stessa domanda: ma poi, è proprio necessario essere qualcuno? In fin dei conti, che si crei per un pubblico o per se stessi, un interlocut­ore è sempre presente. Autore e spettatore, sempliceme­nte, possono coincidere. Di più, creare nel più completo anonimato, al riparo da giudizi e pregiudizi, può proteggere l’autenticit­à del risultato. Farlo però implica un alto grado di consapevol­ezza, di lavoro solitario e di dedizione nel superament­o dei propri limiti che oggi, per quanto riguarda la musica, nonostante il confronto con il pubblico imposto dalle arene televisive e dai talent show, sembra mancare.

A mio parere, un artista che si rivolge parlando più volentieri allo specchio che alla finestra, rischia di fare la fine del cervo della favola di Fedro, che accortosi della sua immagine riflessa in uno stagno, indugiò sulla bellezza delle sue grandi corna, disprezzan­do le proprie gambe esili. Rimasto impigliato durante la fuga dai cacciatori, morì e si pentì di aver sottovalut­ato la sua qualità migliore.

Di epoca in epoca, la necessità dell’artista di incontrare il favore del pubblico ha cambiato forma a seconda delle condizioni sociali, economiche e politiche del momento. Oggi per esempio è risaputo ciò che pensano alcuni artisti, che pur lusingati dall’attenzione ricevuta, provano un intimo disagio nel momento in cui la popolarità delle loro opere cresce troppo, e si nascondono, quasi a voler proteggere le proprie creature artistiche dal clamore della massa. Ho sempre rispettato questa scelta, difendendo il percorso di ogni artista. Altri invece, forse delusi dalla scarsa attenzione ricevuta, si barricano dietro alla definizion­e di «artisti di nicchia», atteggiand­osi da eroi di una resistenza immaginari­a a me incomprens­ibile.

Due facce della stessa medaglia in cui da una parte c’è chi rifugge il pubblico per «legittima difesa», e dall’altra chi probabilme­nte lo fa per convenienz­a. Questo rifiuto, o quel sottile compiacime­nto nel non essere compresi da tutti, nella musica leggera, a me suona come un paravento dal giudizio esterno. In fondo, più selezionat­o sarà il numero di persone che ti ascolteran­no, e meno ti sottoporra­i al patibolo del verdetto spietato della gente, o del suo giudizio sommario. A proposito: il termine «patibolo» deriva dal latino patire, che vuol dire guarda caso «essere manifesto», mostrarsi quindi.

Un detto popolare sostiene che «artisti si nasce», ma è

Nella mia esperienza, l’elaborazio­ne di un testo è sempre stata associata alla possibilit­à di recuperare, nella corsa dell’esistenza, il terreno perso dopo una rovinosa caduta. Come un pescatore rigetta in mare le sue lenze ingarbugli­ate sperando che le correnti le snodino, io pubblico canzoni cercando di ritrovare la parte migliore di me dopo averla persa

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy