Corriere della Sera - La Lettura
Bitcoin, la Banca Centrale sono io
Da sempre il sogno dell’economia virtuale è una valuta senza Stato, di tutti. Ora c’è qualcosa di più: la «blockchain», la catena che si forma dall’unione in Rete di milioni di computer che garantisce un sistema sicuro di protezione. Tanto che si potrebbe
Di tanto in tanto, generalmente in concomitanza con qualche notizia bizzarra, con qualche mitomane che cerca di passare per il genio che lo ha inventato o, più spesso, con qualche frode, sui media rispunta il famigerato bitcoin. Anche quest’estate, in agosto, il casus belli è stato un furto: 72 milioni di dollari sono scomparsi dai conti degli utenti di una piccola borsa di Hong Kong, Bitfinex. I soliti ignoti al lavoro in versione web. Le indagini sono in corso e chissà se si arriverà mai a qualcosa. Ma per alcuni questa è già la riprova che il bitcoin è il nuovo «sterco del diavolo», la moneta medievale da cui stare lontani trattata dai libri di Jacques Le Goff: i danari pagati a Giuda per il più alto dei tradimenti rimangono sempre nell’aria. Nonostante tutto, per altri, resta l’invenzione del secolo. L’ennesima.
Ciò che non cambia è il contesto del dibattito: all’opinione pubblica la moneta elettronica viene presentata più come un’arte negromantica fuori tempo massimo che come un fenomeno economico.
Eppure dopo anni di «scomunica» ufficiale da parte della sacra finanza, quella delle banche, è proprio la sua natura socio-economica, ancor prima di quella tecnologica, che sta risollevando l’interesse per quella che potrebbe essere la base delle transazioni future. Quest’anno nel disinteresse comune il World Economic Forum ha detto che l’80 per cento delle banche potrebbe lanciare dei progetti basati su una blockchain entro il 2017. La vera gallina dalle uova d’oro non sarebbe tanto il bitcoin in quanto valuta, ma la blockchain, la catena che si viene a formare dall’unione in Rete di milioni di computer: è una sorta di database accessibile a tutti, ma che nessun singolo ha il potere informatico di cambiare. O meglio: il costo per modificare tutte le infinite periferie della blockchain sarebbe così alto da annullare qualunque tipo di guadagno. La rivoluzione del bitcoin è qui: la memoria della sua produzione, della distribuzione e della proprietà non è in qualche server centralizzato, un bunker inaccessibile come quello delle banche o dei servizi di pagamento come Paypal, ma ovunque. Letteralmente.
La blockchain in qualche maniera è l’anti-banca. Ed è forse questo essere l’antimateria che crea l’attrazione gravitazionale che la finanza tradizionale subisce. Per capire il fenomeno bisogna estrarre il bitcoin dalla sua sfera alchemica, per riportalo alla pura transazione economica. Sforzo non facile perché per migliaia di anni la moneta ha avuto alcune caratteristiche essenziali che noi le riconosciamo e che oggi il denaro peer-to-peer, cioè creato da pari a pari attraverso le reti condivise di computer, sembra avere tradito.
La prima è quella ricordata da Jorge Luis Borges nella raccolta di poesie La
moneta di ferro: «Ecco qui la moneta di ferro. Interroghiamo le due opposte facce e avremo la risposta». Grazie alle due immancabili facce, testa o croce, la moneta è stata per secoli strumento del caso laddove il bitcoin — che, per inciso, no- nostante la diffusa abitudine di usare la maiuscola come se fosse un prodotto, andrebbe minuscolo come tutte le valute — non ne ha nessuna. Non si può lanciarlo in aria per avere un verdetto. Non si può cercare in esso la fortuna.
La seconda caratteristica è che da sempre il conio è stato il simbolo stesso del potere centralizzato. La tradizione vuole che la moneta sia nata con Creso, re di Lidia, nel VI secolo a.C., un’origine incerta proprio come accade per la e-moneta che ancora cerca il suo padre, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Da Creso in poi chiunque abbia avuto un potere lo ha manifestato stampando la propria effigie su una moneta: i persiani, i greci, i romani, i barbari che usurpavano il potere negli incerti confini dell’impero del IV-V secolo dopo Cristo, Carlo Magno, le Città-Stato come le moderne economie. Nessuno del popolo o della borghesia poteva sperare in tanto. Al contrario il fascino per molti ignoto del bitcoin risiede proprio nell’avere disatteso questa legge che sembrava scolpita nella pie-
tra della politica monetaria: oggi chiunque può decidere di scendere con il proprio computer nelle cosiddette «miniere» del conio, proprio come in passato si doveva scendere sottoterra a cercare l’o r o , mate ri a pr i ma de l l a mone t a . Chiunque può partecipare al conio scaricando uno dei molti software che si trovano nelle reti Torrent, come Slush, vincendo il proprio pezzettino di moneta. E nessuno può pensare di essere un neo Sforza, Gonzaga o de’ Medici. O, al contrario, tutti possono sognarlo almeno un po’ partecipando al conio. Quello che vende è un sogno: «La Banca centrale sono io». A ben vedere l’unica essenza della moneta tradizionale che ritroviamo nel bitcoin è l’incrollabile fiducia in essa. Da quando nel 1931 il sistema monetario internazionale ha abbandonato definitivamente il Gold Standard, che imponeva di immagazzinare un pari quantitativo di oro per tutta la moneta in circolazione, tutti noi lavoriamo per avere a fine mese dei pezzi di carta e delle monete di materiale vile. Crudele ma vero. La vera moneta è la fiducia nel sistema e il bitcoin, in qualche maniera, ha assorbito questa magia. Per paradosso a dimostrarlo ci sono proprio i furti come quello avvenuto a Hong Kong: la valuta crolla ma poi si riprende sempre come era già accaduto nel 2014 quando era fallita la stessa borsa di Tokyo, Mt. Gox, al tempo la più grande al mondo. Nonostante le perdite, oltre 600 milioni andati in fumo, la moneta ha superato indenne il crac. «Solo un miracolo potrà ridarmi i miei bitcoin, ma io credo ancora in questa moneta», aveva testimoniato allora all’Afp Aaron Gotman a Tokyo, pur avendo perso in Mt. Gox la bellezza di 200 mila dollari. Fiducia, cieca ma non irrazionale: nessuno ha perso fede nelle lire nonostante i furti in banca.
Per alcuni, è bene sottolinearlo, rimane comunque una sorta di schema Ponzi in cui gli ultimi resteranno con il cerino in mano. L’algoritmo che ne gestisce la produzione è un puzzle che diventa sempre più complicato da risolvere, giorno dopo giorno. Così il primo a scendere nella miniera ha guadagnato milioni facilmente — per la vulgata in rete, alimentata da alcuni documenti di cui nessuno, per ora, è riuscito a dimostrare l’autenticità, questa operazione sarebbe stata portata a termine dallo stesso padre della moneta — mentre oggi bisogna tenere un computer attaccato alla Rete per giorni per potere guadagnare pochi centesimi.
Sia come sia, il bitcoin rimane una moneta immatura che non risente, come tutte le altre, dell’ordine al caos imposto con la riforma monetaria carolingia, da cui deriva quella «libbra» diventata poi la lira che ritroviamo in tanti Paesi: tanto che non ha dei sottomultipli. Ma per ora è un enorme laboratorio mondiale per studiare come potrebbe essere un mondo alla rovescia dove per difendere le informazioni non le dovremo chiudere in un fortino segreto in Alaska ma, al contrario, le dovremo dare a tutti, così che i molti possano essere i guardiani dei pochi (furbi o ladri che siano). Ecco il vantaggio per le banche: potrebbero tagliare dai loro bilanci gli enormi costi per gestire i bunker dei segreti e usare tutti i computer in rete per «esternalizzare» la gestione dei dati.
Di certo la blockchain sarebbe un sistema basato sulla fiducia nell’umanità, forse un’utopia da perseguire nella speranza che non avesse ragione lo storico dell’economia Carlo Cipolla nel trattato, Al
legro ma non troppo, che rimane il suo lascito più famoso: tutti noi sottovalutiamo il numero degli stupidi in circolazione.