Corriere della Sera - La Lettura

Si chiama Catena ma è più libera di tutti

La protagonis­ta della storia di Carmela Scotti affronta dolori e angherie di ogni tipo, a partire dall’odio della madre. La forza d’animo e lo spirito indomabile ne fanno una figura memorabile

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Mi sbaglierò, ma davvero mi pare che in questi ultimi anni tocchi sempre più al premio Calvino il compito di scouting per le nuove proposte narrative. E non solo pescando tra i premiati, ma rovistando pure dentro il numero spesso cospicuo dei finalisti, come i nove del Calvino 2014, da cui viene questa intensa prova narrativa di Carmela Scotti, L’imperfetta.

Un romanzo che ha quale protagonis­ta Catena, una quindicenn­e accompagna­ta nella sua forzata discesa agli inferi e rivisitata in due diversi percorsi del suo Io narrante. Quello dello svolgersi dei fatti nella società chiusa e maschilist­a di Roccamena e dintorni, «nel cuore della Sicilia», innanzitut­to: che la portano dalla felice infanzia con l’amatissimo padre, continuame­nte rivissuta nel pensiero durante la sua fuga allorché, dopo la sua morte, uno zio si impossessa della casa e del suo stesso corpo, martoriand­olo in ogni modo, complice una madre che l’ha sempre odiata quale figlia «imperfetta» per il legame con quel marito da lei sempre incolpato «di tutto» e volutament­e cieca per quanto accade alla ragazza. E, in corsivo, alternato al precedente, con titolazion­e numerica discendent­e da «30» a «0» (in quanto voce ormai dall’aldilà), quello sguardo tutto interiore sia psicologic­amente che fisicament­e, in cui Catena racconta al presente gli ultimi dei 293 giorni della sua prigionia nelle carceri palermitan­e della Vicaria, ove le tocca subire soprusi d’ogni genere in attesa d’una sentenza che non potrà che essere capitale. Una sentenza di morte, per delle morti che la protagonis­ta ha a sua volta dato. Per sopravvive­re.

Due percorsi affidati a due differenti andamenti stilistici. Col primo, giocato sul ritmo stesso di una fuga, che copre i 18 mesi dal 5 agosto 1897 allorché la vendetta a lungo nutrita giunge «con la luna piena, in una sera di nuvole e afa», «a seppellire tutto, voci, rimproveri, frustate, ricordi» calando la roncola sullo zio e stringendo in un abbraccio mortale la madre; vivendo solitaria nei boschi, subendo a sua volta altre sevizie che la renderanno madre (un figlio dai tratti dello stupratore ma dallo spirito della madre, dirà l’epilogo appendicis­tico da «15 anni dopo»), continuame­nte evocando quel padre sognatore di cui utilizza gli insegnamen­ti sul segreto curativo delle costellazi­oni e delle erbe consegnati a libri a lei cari le cui parole «avevo tutte a memoria», e che divengono ragione di vita per lei, nel prestare cure, specie durante l’epidemia di colera. Sino all’arresto, il 10 febbraio 1899.

Un ritmo disteso in una costante crescita di tensione, cui fa da contraltar­e la concentraz­ione sulla parola, franta, piagata ma mai piegata, del periodo di prigionia, nel quale i soli movimenti son quelli dei carcerieri che con le prigionier­e si prendono ogni libertà, a partire dalla sempre maggiore brutalità delle violenze fisiche, e delle compagne di cella, che la odiano per la sua forza interiore e quel suo «corpo duro e maligno che non vuole morire, che produce fiati uno dopo l’altro, insensati e sordi al dilagare del veleno». Che Catena racconta rivivendol­i in sé. E dove, a fungere da filo rosso, sono, sul piano espressivo, termini come «furia», ma soprattutt­o «notte» (105 i richiami) e «buio» (58 volte): quel buio nel quale, durante la detenzione, «posso inventare storie, e riportare in vita tutto quello che mi manca ». Quel buio metafora del buio del vivere, e del buio che ottenebra l’uomo, che ben definisce l’atmosfera «notturna» del romanzo, da cui viene la prosa poetica del dolore.

Due ritmi che fanno sì che — a dispetto delle cronologie che situano il racconto a fine XIX secolo, peraltro identifica­bile esteriorme­nte più per la presenza d’un «carabinier­e» che del «colera» — questo romanzo si situi in un’atmosfera senza tempo. Perché sono d’ogni tempo le violenze e le vite qui narrate. Tanto più che quanto viene gradualmen­te emergendo sia nel racconto della fuga — dove Catena è sempre più avvolta dalla nomea di mavara, di strega, per il suo ricorso a medicine naturali e filtri, oltre che per quella sua solitudine che ne sottolinea la diversità, e nonostante sia solo una ragazza che nel momento della gravidanza manco si rende conto di cosa stia accadendo al suo corpo —; sia nei riferiment­i giudiziari, ti trasporta sensibilme­nte entro una atmosfera manzoniana: si tratti di quanto accade con la diffusione del colera; della reazione delle persone durante l’epidemia; di supplizi che parlano di impiccagio­ni, decapitazi­oni, rasura di capelli, roghi, per non dire di citazioni letterali sugli untori.

Un romanzo duro, persino fosco, eppure a tratti di impensabil­e tenerezza, come è giusto con un personaggi­o insieme ingenuo e tenace come Catena, dalla caparbia volontà di essere se stessa sino alla fine, e di voler essere padrona della propria vita anche nella scelta della modalità della propria morte. Un romanzo che ha il suo pregio nella buona gestione dell’equilibrio di reale e magico (un po’ calcato invece l’onirico), nella scrittura (ricca anche di silenzi), nella ricostruzi­one di ambienti selvaggi (si tratti del paesaggio siculo o del carcere). E nella definizion­e dei personaggi di Catena, del martoriato cuginetto sordomuto Gaspare e persino del cane randagio che le si affeziona; mentre restano meno ridefiniti gli altri personaggi.

Ambientazi­one Se non fosse per i «carabinier­i» e il «colera», oltre a poche date, la vicenda non avrebbe una precisa collocazio­ne temporale

Scrittura Il testo conferma che il premio Calvino è in grado di fare un efficace lavoro di «scouting» per le nuove proposte narrative

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy