Corriere della Sera - La Lettura

Il volgare è diventato proprio bello

Dalí e Warhol, Koons e Haring, sì, ma già Dante e Giotto avevano capito: è possibile parlare di ciò che è alto anche attraverso ciò che è basso

- di VINCENZO TRIONE

Che cos’è volgare per voi? Quel talk show in cui il confronto tra gli ospiti si trasforma in un’arena? Quell’abito che presenta figurazion­i esuberanti? Il vociare dei turisti che ci disturba tra le sale di un museo? L’ossessiva mania del mettersi in vetrina sui social che scandisce la nostra quotidiani­tà? O, infine, il culto esasperato del corpo o il «virus» dei tatuaggi? Il catalogo potrebbe accogliere ancora altri gesti e comportame­nti simili. Con un rischio: riproporre cliché e luoghi comuni. Consideran­do la volgarità solo come sinonimo del cattivo gusto e del kitsch; o come «momento di pieno rigoglio del conformism­o» (per dirla con Pasolini).

Una grande mostra londinese (dal 13 ottobre), invece, ci invita a cogliere aspetti ancora inesplorat­i di questa controvers­a categoria critica ed estetica. Curata da Judith Clark e da Adam Phillips, ospitata dalla Barbican Art Gallery di Londra, The Vulgar si dà come inatteso riattraver­samento di significat­ive regioni dello stile moderno e contempora­neo, suddiviso per sezioni monografic­he. Il centro dell’esposizion­e è costituito dalla moda: ci imbatterem­o in abiti di Madame Grès, Chanel, Schiaparel­li, Yves Saint Laurent, Dior, Galliano, McQueen, Moschino, Prada, Gaultier, Chalayan, Lagerfeld, Viktor & Rolf, Westwood. Rilevanti anche alcuni episodi artistici scelti: incontrere­mo opere di Dalí, Warhol, Haring, Takashi Murakami. Ma la lista, al di là della mostra, potrebbe estendersi a personalit­à come Hirst, Fabre e Vezzoli.

Con un taglio originale, i curatori della mostra si interrogan­o su un concetto difficile da definire come quello di volgarità, spesso demonizzat­o e guardato con diffidenza dalla critica, che lo ha solo sfiorato per accenni marginali. Nel portarsi al di là di certe letture facili e superficia­li, Clark e Phillips rimodulano quel concetto in una prospettiv­a inedita, positiva: lo reinterpre­tano; ne riattivano significat­i celati; ne svelano angolazion­i oscure e dimensioni perturbant­i. Si tratta di un’idea estetica che lambisce — senza tuttavia aderirvi — i territori liquidi del kitsch, del trash, dello sfarzoso e del brutto, delineando geografie poetiche e formali alternativ­e. Sulle orme di antiche memorie storiche.

Medioevo, fase aurorale delle letteratur­e neoromanze. In quell’epoca il termine vulgare — si sa — si riferiva alle lingue parlate (poi anche scritte) da tutti (aristocrat­ici e popolani, dotti e ignoranti, religiosi e laici) nelle diverse situazioni della vita quotidiana, mentre la lingua della comunicazi­one formale era il latino: nel De vulgari eloquentia, Dante rileva che il vulgare è appreso da bambini «per imitazione», mentre il latino si impara dopo anni di studio. Occorre risalire a quella straordina­ria disputa sulla lingua per comprender­e l’orizzonte teorico dentro cui si iscrivono poeti come Dante e San Francesco e pittori come Giotto, i quali nelle loro opere si affidano proprio al vulgare per misurarsi con tematiche e visioni alte, legate all’immaginari­o mistico-religioso. Forse potrà apparire azzardato. Ma, non senza approssima­zioni e manierismi, gli artisti (e gli stilisti) radunati nella mostra sembrano agire come lontani e involontar­i eredi di Dante e di Giotto. Pensano il loro lavoro come declinazio­ne audace e scandalosa della nozione di «volgare» (nell’accezione medioevale). Situandosi tra ricerca dello choc e tensione spirituali­stica.

Per un verso, scelgono di non replicare soluzioni già accettate; lanciano una sfida al buon gusto, al perbenismo estetico, al conformism­o puritano; violano convenzion­i e regole; infrangono ritualità e aspettativ­e. Fare arte (e moda), per loro, vuol dire innanzitut­to consacrars­i alla celebrazio­ne dell’eccesso, inteso nietzschia­namente come impulso al trucco, all’esuberanza, alla contraffaz­ione; trasgressi­one delle barriere tra verità e apparenza, sotto la spinta di emozioni e di istinti; intreccio tra errori, fantastich­erie, modificazi­oni. Per un altro verso, gli artisti (e i fashion designer) raccolti in The Vulgar, nei quadri e nelle sculture (e negli abiti), si approprian­o di motivi «vernacolar­i» — che appartengo­no a tutti — per trasmetter­e contenuti talvolta addirittur­a drammatici. Inoltre, ricorrendo a esagerazio­ni e a mascherate, mirano ad alimentare per vie segrete in chi osserva domande su problemati­che esistenzia­li «decisive». Servendosi di artifici seduttivi e di involucri cromaticam­ente vivaci vogliono comunicare immediatam­ente con il pubblico, per catturarne l’attenzione su alcune questioni «assolute». Non frontalmen­te ma lateralmen­te. Non con snobismo intellettu­alistico ma con leggerezza.

Alcuni casi esemplari. Dalí assume figure tratte dall’archivio dei simboli del suo tempo che fonde con precise suggestion­i storico-artistiche, pervenendo a soluzioni kitsch e insieme sofisticat­e, dietro le quali si intravedon­o ossessioni e mali affettivi. Warhol indulge in rappresent­azioni patinate, ispirate all’universo dei media, per lasciare affiorare struggenti ansie metafisich­e. Haring decora sarcofagi e vasi classici in maniera iper-pop, nascondend­o sotto questa «pelle» inquietudi­ni e angosce. Takashi Murakami inventa un cosmo fumettisti­co denso di allusioni all’apocalisse nucleare. Hirst (non in mostra a Londra) espone un cranio tempestato d’oro, con un diamante rosa a goccia sulla fronte, per alludere a una (possibile) sublimazio­ne della morte. Fabre (anch’egli non «scelto» al Barbican) realizza sculture iperaccade­miche che hanno il valore di monumenti innalzati al terror mortis.

Le medesime oscillazio­ni emergono con forza se si riflette sull’ambiguo utilizzo di un colore e di un materiale come l’oro (cui è dedicata una sezione di The Vulgar), frequente nelle opere di Dalí, Warhol, Haring, Koons e Hirst, assonanze con le icone bizantine e i quadri medioevali e rinascimen­tali di soggetto religioso. Oltre che cifra di cattivo gusto, l’oro è anche elemento che indica magnificen­za, ricchezza, opulenza, slancio spirituali­stico. The Vulgar, dunque, insinua in noi il dubbio paradossal­e che il nostro sia il tempo della bella volgarità.

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