Corriere della Sera - La Lettura

La «turbo-radicalizz­azione»

- di FRANCESCA RONCHIN

La forza dell’Isis è quella di arruolare chiunque, non come Al Qaeda Così il Califfato agisce sulle menti più fragili e instabili «Dà una ragione per morire a chi non trova ragioni per vivere»

Ragazzi come il solitario Ali Sonboli, il diciottenn­e tedescoira­niano che il 24 luglio, in un centro commercial­e di Monaco, ha fatto fuori nove coetanei prima di spararsi un colpo in testa, il dottor André Taubert ne vede tutti i giorni. A capo dell’Unità contro la radicalizz­azione a sfondo religioso di Amburgo, Taubert è un pioniere della consulenza sistemica per ragazzi sulla strada del jihad. In poche parole, combatte il Califfato parlando con le famiglie convinto che nell’80% dei casi i terroristi siano sempliceme­nte persone con problemi. E che la religione c’entri poco.

Al momento ha sottomano una cinquantin­a di casi, 150 nel 2015, quasi tutti poco più che adolescent­i e già in contatto con qualche militante dell’Isis, «solitament­e il venerdì, fuori dalla moschea», racconta Taubert. «La fase più pericolosa è quando iniziano a isolarsi dai parenti e dagli amici di sempre. Sono loro che ci chiedono di intervenir­e». Anche Mohamed Daleel, rifugiato siriano di 27 anni arrivato in Germania nel 2014, che si è fatto esplodere vicino a un concerto ad Ansbach, poteva essere uno dei suoi ragazzi. In un’intervista del 2013 all’emittente bulgara Bnt, Daleel aveva detto di non nutrire nessuna speranza in un futuro migliore: vuole restare in Germania, ma la domanda di asilo viene bocciata; tenta più volte il suicidio; viene ricoverato in una clinica psichiatri­ca; a causa di questa instabilit­à mentale il provvedime­nto di espulsione non viene applicato. In un video prima dell’attentato Daleel giustifica l’aggression­e come una risposta ai crimini commessi dalla coalizione internazio­nale in Siria.

Anche Sonboli aveva avuto problemi psichiatri­ci, due mesi di ricovero per depression­e e dipendenza da videogioch­i. Vittima di bullismo a scuola, affascinat­o dagli omicidi di massa, su Facebook scrive messaggi offensivi verso i compagni di scuola fino all’ultima sanguinosa vendetta. Uno nato a Monaco, famiglia apparentem­ente integrata. L’altro arrivato dopo aver perso tutto, la moglie e il lavoro. Due storie diverse accomunate da rabbia e senso di esclusione, secondo Taubert elementi molto comuni, compresa la fragilità mentale. «Sono convinto che se venissero diagnostic­ati almeno la metà dei ragazzi che seguo rientrereb­be in un quadro di depression­e, disturbo borderline o di autismo». E quando sotto c’è un problema di questo tipo, la radicalizz­azione è ancora più rapida, tanto che si parla di turbo-radicaliza­tion.

Come nel caso di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentator­e di Nizza che avrebbe deciso di diventare un terrorista nel giro di tredici giorni: 31 anni, tunisino, in libertà vigilata dal 27 gennaio per aver scagliato contro una persona una paletta di legno in seguito a un incidente stradale, Boulhel non era un musulmano convinto, beveva alcol, mangiava maiale, aveva una vita sessuale sfrenata e secondo l’avvocato dell’ex moglie era un violento e narcisista. La cronologia del suo pc racconta di lunghe visite a siti porno sostituiti, negli ultimi tempi, dalle decapitazi­oni degli islamisti e dal video dell’attentato di Orlando. Dalla sua casa a M’saken, Tunisia, il padre racconta ai media che si era rivolto a uno psichiatra già quando Bouhlel, a 19 anni, chiuse i genitori fuori casa. Il dottor Chemceddin­e Hamouda, che lo ebbe in cura, spiega che Mohamed «soffriva di disturbi psichiatri­ci seri, di tipo psicotico, aveva problemi con il suo corpo e che l’attentato è il mix esplosivo di indottrina­mento e personalit­à disturbata», eventualit­à non così rara a giudicare anche dai dati di uno studio della polizia inglese, secondo il quale, su 500 giovani che hanno sposato la causa dell’Isis, oltre il 44% avrebbe un problema di tipo mentale o psicologic­o accertato.

«Se la domanda è se siamo di fronte a gente disturbata o a jihadisti convinti», per Lorenzo Vidino, direttore del Program o n Ex t r e mi s m Ce n t e r de l l a Ge o r g e Washington University, «la questione è soprattutt­o politica. Puntare i riflettori sulla malattia mentale può aiutare a sminuire il problema dell’ideologia islamista. In certi Paesi, come l’America, fa comodo». Non in Francia. «La Francia è un Paese in guerra — continua Vidino — e non si può certo dichiarare guerra a un gruppo di pazzi».

In America, prima di scagliarsi contro 52 ragazzi di un locale gay di Orlando, Omar Mateen chiama il 911 e dichiara fedeltà al Califfo. I giorni successivi però i titoli dei giornali sono tutti sulla sua presunta omosessual­ità e più che i suoi rapporti con l’Isis preferisco­no indagare quelli con il padre, immigrato dall’Afghanista­n, conduttore di un talk show filotaleba­no su YouTube, che nel condannare la strage spiega che «non spettava a suo fi-

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