Corriere della Sera - La Lettura
La «turbo-radicalizzazione»
La forza dell’Isis è quella di arruolare chiunque, non come Al Qaeda Così il Califfato agisce sulle menti più fragili e instabili «Dà una ragione per morire a chi non trova ragioni per vivere»
Ragazzi come il solitario Ali Sonboli, il diciottenne tedescoiraniano che il 24 luglio, in un centro commerciale di Monaco, ha fatto fuori nove coetanei prima di spararsi un colpo in testa, il dottor André Taubert ne vede tutti i giorni. A capo dell’Unità contro la radicalizzazione a sfondo religioso di Amburgo, Taubert è un pioniere della consulenza sistemica per ragazzi sulla strada del jihad. In poche parole, combatte il Califfato parlando con le famiglie convinto che nell’80% dei casi i terroristi siano semplicemente persone con problemi. E che la religione c’entri poco.
Al momento ha sottomano una cinquantina di casi, 150 nel 2015, quasi tutti poco più che adolescenti e già in contatto con qualche militante dell’Isis, «solitamente il venerdì, fuori dalla moschea», racconta Taubert. «La fase più pericolosa è quando iniziano a isolarsi dai parenti e dagli amici di sempre. Sono loro che ci chiedono di intervenire». Anche Mohamed Daleel, rifugiato siriano di 27 anni arrivato in Germania nel 2014, che si è fatto esplodere vicino a un concerto ad Ansbach, poteva essere uno dei suoi ragazzi. In un’intervista del 2013 all’emittente bulgara Bnt, Daleel aveva detto di non nutrire nessuna speranza in un futuro migliore: vuole restare in Germania, ma la domanda di asilo viene bocciata; tenta più volte il suicidio; viene ricoverato in una clinica psichiatrica; a causa di questa instabilità mentale il provvedimento di espulsione non viene applicato. In un video prima dell’attentato Daleel giustifica l’aggressione come una risposta ai crimini commessi dalla coalizione internazionale in Siria.
Anche Sonboli aveva avuto problemi psichiatrici, due mesi di ricovero per depressione e dipendenza da videogiochi. Vittima di bullismo a scuola, affascinato dagli omicidi di massa, su Facebook scrive messaggi offensivi verso i compagni di scuola fino all’ultima sanguinosa vendetta. Uno nato a Monaco, famiglia apparentemente integrata. L’altro arrivato dopo aver perso tutto, la moglie e il lavoro. Due storie diverse accomunate da rabbia e senso di esclusione, secondo Taubert elementi molto comuni, compresa la fragilità mentale. «Sono convinto che se venissero diagnosticati almeno la metà dei ragazzi che seguo rientrerebbe in un quadro di depressione, disturbo borderline o di autismo». E quando sotto c’è un problema di questo tipo, la radicalizzazione è ancora più rapida, tanto che si parla di turbo-radicalization.
Come nel caso di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza che avrebbe deciso di diventare un terrorista nel giro di tredici giorni: 31 anni, tunisino, in libertà vigilata dal 27 gennaio per aver scagliato contro una persona una paletta di legno in seguito a un incidente stradale, Boulhel non era un musulmano convinto, beveva alcol, mangiava maiale, aveva una vita sessuale sfrenata e secondo l’avvocato dell’ex moglie era un violento e narcisista. La cronologia del suo pc racconta di lunghe visite a siti porno sostituiti, negli ultimi tempi, dalle decapitazioni degli islamisti e dal video dell’attentato di Orlando. Dalla sua casa a M’saken, Tunisia, il padre racconta ai media che si era rivolto a uno psichiatra già quando Bouhlel, a 19 anni, chiuse i genitori fuori casa. Il dottor Chemceddine Hamouda, che lo ebbe in cura, spiega che Mohamed «soffriva di disturbi psichiatrici seri, di tipo psicotico, aveva problemi con il suo corpo e che l’attentato è il mix esplosivo di indottrinamento e personalità disturbata», eventualità non così rara a giudicare anche dai dati di uno studio della polizia inglese, secondo il quale, su 500 giovani che hanno sposato la causa dell’Isis, oltre il 44% avrebbe un problema di tipo mentale o psicologico accertato.
«Se la domanda è se siamo di fronte a gente disturbata o a jihadisti convinti», per Lorenzo Vidino, direttore del Program o n Ex t r e mi s m Ce n t e r de l l a Ge o r g e Washington University, «la questione è soprattutto politica. Puntare i riflettori sulla malattia mentale può aiutare a sminuire il problema dell’ideologia islamista. In certi Paesi, come l’America, fa comodo». Non in Francia. «La Francia è un Paese in guerra — continua Vidino — e non si può certo dichiarare guerra a un gruppo di pazzi».
In America, prima di scagliarsi contro 52 ragazzi di un locale gay di Orlando, Omar Mateen chiama il 911 e dichiara fedeltà al Califfo. I giorni successivi però i titoli dei giornali sono tutti sulla sua presunta omosessualità e più che i suoi rapporti con l’Isis preferiscono indagare quelli con il padre, immigrato dall’Afghanistan, conduttore di un talk show filotalebano su YouTube, che nel condannare la strage spiega che «non spettava a suo fi-