Corriere della Sera - La Lettura

La vertigine dell’olandese volante

Prosatore Sia nei romanzi sia nei testi sui suoi vagabondag­gi per il mondo, lo scrittore fa ricorso alla stessa formula: una storia senza racconto. Niente dramma, niente tragedia. Ma nelle sue pagine c’è la modernità, c’è la luce e c’è la ricerca ultima (

- Di FRANCO CORDELLI

Che scrittore è Cees Nooteboom? Sia nei romanzi sia nei libri di viaggio, la stessa forma: una storia senza racconto. La durata, dice, appartiene al XIX secolo: nel tempo nostro essa viene abolita — non per nulla la sua fisionomia, nello scrittore olandese, è super-compressa, si potrebbe dire che tende alla fotografia, alla soluzione unica, istantanea: presente e misteriosa. A volte solo chi c’era, chi ha vissuto con coloro di cui si parla, potrà capire. In queste condizioni, aggiunge, togliamoci dalla testa il dramma, ancor più la tragedia.

«Quando è che qualcosa diventa un dramma? Forse devo tornare all’antica definizion­e teatrale: la camicia di forza dell’unità di tempo, luogo e azione. Qui chi si aspetta qualcosa del genere si sentirà truffato. Dramma sì, ma niente camicia di forza, e quindi niente arte. Niente acme, niente scioglimen­to». Nooteboom questo lo scrive in apertura del racconto Heinz, uno degli otto raccolti in Le volpi vengono di notte del 2009. Il «niente arte», se si vuole, è un estremismo, ma tutto il resto è vero, è proprio com’è ogni testo suo — e, ancora se si vuole, come è ogni testo della modernità o della neo-modernità.

La prima volta che Nooteboom arrivò nel mondo antico — nei deserti iranici, là dove si aprono «i saloni vuoti del mondo tra Europa e Asia» (era il 1 9 7 5 , a ve v a 4 2 anni) — proprio là, nel luogo più lontano dalle nostre consapevol­ezze, buone o cattive che siano, giuste o sbagliate — contrappos­to al Dio-carne del cristianes­imo, gli si rivelò il Dio-scrittura dell’islamismo, ma anche, per puro paradosso, del nostro occidental­e modo di rivelarci a noi stessi negli anni in cui oggi viviamo. Heinz, tra parentesi, è ambientato in una «cittadina portuale» della riviera ligure. Il punto di partenza è Montale, naturalmen­te gli Ossi di seppia. Il protagonis­ta è un uomo gioviale e malinconic­o; ma anche un satiro e un alcolizzat­o: un personaggi­o di Graham Greene che, come olandese nell’esilio italiano, e come personaggi­o di Nooteboom, si va trasforman­do in un anti-eroe di Saul Bellow. Egli, seguendo il ritmo della prosa che lo tramanda, dondola — si sposta di continuo, ma è sempre nello stesso posto. È su una barca, per essere precisi, più che su un’altalena.

A partire da questo punto, vorrei enucleare i temi che sempre ritornano. Ne Il suono del Suo nome del 2012, uno dei quattro libri di viaggio tradotti in italiano (considero un libro di viaggio Tumbas del 2007, in italiano nel 2015), ne Il suono che raccoglie anche testi remoti, c’è il paradigma — l’antico, il così antico da essere fuori dal tempo — di fronte al quale tutto si misura. Ed ecco, subito, il moderno. Esso trova un luogo privilegia­to di apparizion­e nella fotografia (la moglie di Nooteboom è una fotografa, essi lavorano insieme). In Mokusei del 1982 il protagonis­ta Arnold Pessers è un fotografo, un olandese innamorato del Giappone: sempre vi torna, ogni volta che gli si presenta l’occasione. In Giappone vivrà, con una modella che alla fine sposerà un altro, la storia d’amore più importante della sua vita. Non la dimentiche­rà mai. È una storia, benché sia durata cinque anni, senza tempo — o fuori del tempo. Al pari delle rovine persiane, e delle tombe degli Achemenidi, tali sono le sue foto: «Arnold scattò le stesse foto che aveva scattato cinque anni prima. Nemmeno sui provini, poi, fu possibile rendersi conto che la donna lì ritratta era invecchiat­a di cinque anni». Anche il taxi è un aspetto del moderno, la «modernità aggressiva di Teheran».

Nooteboom scrive (ancora ne Il suono): «Ti metti sulla strada e appena vedi avvicinars­i uno di quei piccoli taxi arancione gli corri incontro e gli gridi nel finestrino aperto la tua destinazio­ne, un grido persiano che hai imparato a memoria prima. In ogni caso non sarà mai la tua destinazio­ne finale, perché i taxi attraversa­no la città esclusivam­ente in linea retta. Il tassista rallenta impercetti­bilmente, ma si ferma soltanto se decide di caricarti. Se lo fa o meno, è sempre un mistero». Come non pensare al regista Jafar Panahi, al suo film Taxi Teheran? E come non accorgersi che il 2015 degli ayatollah è uguale all’«antico» 1975 dello scià e della sua presunta democrazia? Certe cose, quelle che stanno nel fondo, non cambiano mai. Arrivano a somigliare a un «moderno» romanzo di Nooteboom. Il «balletto dei taxi» è simile alla sua prosa danzante.

La luce non è la modernità. Ma è un punto di congiunzio­ne, o meglio di identità, tra i tempi — un punto che introdurrà al tema ultimo. La luce in Nooteboom è cruciale specie se la si pensa in rapporto alle sue ossessioni. L’olandese dal nome tedesco Heinz è sposato con l’inglese Molly ma il suo grande amore fu Arielle, morta a 22 anni e la cui tomba, là in Liguria, ancora riceve fiori, benché non da Heinz, quarant’anni dopo. Arielle, dice l’olandese Nooteboom, «era la luce». Ma la luce lui la vede in continuità dalla parte di sua moglie o del suo Arnold Pessers, il fotografo. Satoko era «una modella perfetta» con un privilegio: «Divorava la luce e questo le era possibile solo perché sapeva esattament­e dove si trovava la luce, la sua luce. Lavorava la luce, la rubava, scolpiva se stessa in posizioni sempre diverse, suscitando in lui una tale avidità che, quando finalmente smisero, gli diede una sensazione di vertigine».

Vertigine probabilme­nte è una parola appropriat­a per introdurre, appunto, il tema ultimo, ciò che l’uomo occidental­e cerca, ciò che cerca il viaggiator­e (al pari dei nomadi del deserto): l’uomo, dico, che vuole liberarsi della Storia e dei calendari. («L’aspetto raccapricc­iante del nostro calendario è che l’ombra di Cristo si riflette anche all’indietro, su un periodo con cui lui non ha proprio nulla a che vedere»). Quest’uomo, lo si legge con chiarezza in Nooteboom, cerca l’estasi. Di recente il tedesco Martin Walser ha pubblicato Sulla giustifica­zione (uscito in Italia per le edizioni Ariele), una specie di summa del suo pensiero, attraverso i suoi romanzi, nel corso degli anni. Walser parla come figlio di un pastore, questo non può mai dimenticar­lo, non può dimenticar­e la sua infanzia. Hölderlin e Kafka, dice, non cercavano di avere ragione, cercavano semmai e soltanto una giustifica­zione. Non la trovavano. Né la trova (ma questa, una giustifica­zione, è la sola possibilit­à) l’uomo educato nel nome di Cristo.

Ancor più, ciò è impossibil­e per il laico Nooteboom. Probabilme­nte questo laico una giustifica­zione ha addirittur­a rinunciato a cercarla. Che resta, dunque? Resta quella vertigine — essa è la causa o l’effetto (sono la medesima cosa) dell’estasi: nella «limpidezza rarefatta» un punto di vuoto — di cecità. «Una delle caratteris­tiche dell’arte araba è l’assenza di umanità: non vi compaiono figure umane. Non c’è identifica­zione con tragedie, sentimenti, storia. Ti muovi in un’estasi infinita, le forme sono una più raffinata, sensuale, provocante e completa dell’altra, e continui a guardare fino a quando, a me capita così, non subentra una cecità soffusa e tutte le figure labirintic­he e i loro colori si trasforman­o in un velo di colore». A «romantico — scrive Nooteboom — preferisco estasiato». Ma l’estasi si può conseguire meglio lontano da casa, dove poco o nulla si conosce, a Isfahan o a Kyoto.

Sulle orme del poeta, Basho, il fotografo olandese «decise di affidarsi completame­nte alla Provvidenz­a e si lasciò ricadere sul sedile. Tutto quel che vedeva, suscitava in lui una grande ilarità, non del genere allegro ma di quello estatico. Si poteva forse definirla sempliceme­nte una sensazione di felicità». Non vi è giustifica­zione alcuna, tanto meno alcuna ragione da proporre. Ma vi è felicità. Vi è anche a un passo dalla fine, quando la modella e il fotografo si amano l’ultima volta prima di separarsi: «Tutto questo e, soprattutt­o, il gesto di una mano disperatam­ente tesa a coprire il viso per nascondere l’estasi suprema, mentre l’altra si agitava impotente in aria e ricadeva poi come un uccello che non si sarebbe mai più alzato in volo».

Il fotografo e la modella sono un tutt’uno per un attimo — come prima che sia scattata la foto o come in fondo una delle tumbas che la moglie dello scrittore fotografò. Sono un tutt’uno — così come il viaggiator­e de Il suono del Suo nome è, o vuole essere, un arabesco; o il narratore di Heinz è, o si sente di essere, un osso di seppia.

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