Corriere della Sera - La Lettura
Ogni chicco di riso è una parola: nessun confine tra versi e non versi
Poeta La produzione lirica accompagna dagli inizi l’avventura di Nooteboom, un autore che si muove tra i generi come se fossero un tutto unico. Con qualche cedimento a un’eccessiva assertività
Cees Nooteboom è conosciuto e apprezzato in Italia esclusivamente come prosatore. Questo si deve però a opportunità e scelte, per altro legittime, di carattere editoriale. Se si guarda alla sua bibliografia complessiva, si vedrà infatti come l’arte del verso occupi fin da subito un posto altrettanto importante dell’arte del racconto. Quello dello scrittore olandese non è dunque il classico caso di un narratore che scopre improvvisamente di possedere il cuore di un poeta. Al contrario, nel suo sistema espressivo poesia e prosa ab origine non solo coesistono ma si definiscono e alimentano a vicenda.
Non è forse un caso, allora, che abbia raggiunto i suoi risultati migliori non tanto nella cosiddetta narrazione pura, quanto nella prosa d’immaginazione e meditativa, lì dove l’immagine, la contemplazione, la concentrazione del senso, finiscono per prevalere sulle necessità del racconto. Della consistente produzione poetica di Nooteboom prova ora a dare conto una bella antologia uscita per Einaudi,
Luce ovunque 2012-1964 (la traduzione è di Fulvio Ferrari), che prende il titolo dalla più recente in ordine di tempo tra le raccolte comprese nel volume. Gli estremi cronologici indicano come il criterio di presentazione dei l i bri ri s ul t i i nvertito rispetto a quello generalmente adottato. Con una sequenza a ritroso, si procede infatti dalle pubblicazioni più recenti alle più lontane. Così, per inveterate abitudini di lettura abbiamo preferito leggere l’antologia a r o ve sc i o , pa r - tendo cioè dalle poesie più antic he, poste al l a fine del volume, per ri s al i re vi a via verso l’inizio. Si legga Luce
ovunque per i l dritto o per il rovescio, crediamo che le due considerazioni che seguono possiedano comunque una loro evidenza. La prima riguarda il carattere originario, la genuinità dei rovelli e delle tematiche che distinguono il Nooteboom narratore che già conosciamo. La seconda ha a che vedere invece con l’evoluzione della sua pronuncia poetica, che acquista nelle raccolte più recenti una pienezza ma anche una decisione e un’assertività che possono essere giudicate non del tutto positivamente. Ecco allora, da un componimento di Poesie
chiuse (1964): «L’ingannatore sta seduto nella sua stanza e lo scrive./ Quali vite formano le sue parole? Quale tempo?/ Arriverà mai la vera vita fino a lui,/ lo prenderà con sé?// No, non lo prenderà mai con sé./ L’ingannatore sta seduto nella sua stanza e scrive/ quel che gli dicono le voci». Si può dire che in questi versi ci sia già tutto Nooteboom: la nostalgia e il compianto per un’epoca di pienezza perduta, l’attrazione per il mito, l’ossessione della morte e della cancellazione, il dialogo con gli dei, gli eroi, gli «immortali», gli amici scomparsi, la scrittura come consapevolezza della frammentarietà e dell’incompiutezza del tempo esistenziale, come possibilità di ascolto e ricezione delle «voci» perdute ma anche come inganno e inadempienza inevitabili.
Fin da subito Nooteboom sembra avere compreso quello che nella nostra tradizione Dante, Foscolo o Pascoli sapevano benissimo: che il colloquio con i morti costituisce di per sé la più poetica delle occasioni di poesia. Viene subito in mente, allora, il suo recente volume di frammenti, epicedi, spunti, raccontini, fotogrammi in prosa (ma anche di versi),
Tumbas. Tombe di poeti e pensatori. A distanza di cinquant’anni lo scrittore batte ancora e inevitabilmente lì: il dialogo con gli estinti, la vita che si rivela a se stessa nel confronto col buio, la poesia come memoria e fedeltà, come retaggio antropologico.
Se Nooteboom è un poeta, questo accade indipendentemente dall’utilizzo del verso o della prosa ma per la qualità intrinseca del suo fuoco espressivo originario. Non si tratta di una poesia descrittiva e tanto meno narrativa. È invece una poesia di meditazione e di riflessione, di un «ininterrotto pensare» e rimuginare su alcuni grandi, invariabili motivi, primo fra tutti quello del cosiddetto disincantamento, della ricerca del senso nell’imperfezione, «nel mondo che diviene spoglio e solitario/ come la carogna di un gabbiano su uno scoglio/ nel tempo che resta co me mis ur a / ora che l’eternità è morta».
Le suggestioni offerte dal pae sa g g i o medi - terraneo attraversato nei tanti viaggi, le immagini di un presente oscuro e manchevole no n vi vo n o d i per sé sole, ma costituiscono ogni volta il pretesto per un’interrogazione più ampia. A volte, come può accadere anche al narratore, l’esposizione del tema appare fin troppo esplicita e schematica, da programma, come se precedesse l’esperienza diretta. Ma in molti casi la definizione di una peculiare malinconia conoscitiva intrisa d’ombra e di silenzio risulta originale e persuasiva, soprattutto quanto la tensione evocativa della poesia — «la scrittura di cenere» — riconosce comunque la propria appartenenza al tempo della dispersione. Proprio per questo, con il progressivo accentuarsi della vocazione filosofica e sapienziale, nelle raccolte più vicine il verso di Nooteboom finisce per suonare fin troppo stentoreo e celebrativo, come se la poesia non fosse più il mezzo ma il fine stesso, un approdo in sé compiuto e appagante. «Tutto ciò che è fatto di parole è vero,/ anche il riso qui sa di sacro,/ puoi mangiarlo con le bacchette:// ogni chicco/ una parola», si trova ad esempio. Ma è vero che la poesia può perdonare tutto, tranne se stessa.