Corriere della Sera - La Lettura
L’amore è tutto, ma forse niente
Alain de Botton torna in libreria con un romanzo-saggio: la storia di due architetti, Rabih e Kirsten, e del passato che ognuno si porta dietro (e dentro) quando incrocia un’altra vita Allora è chiaro che la risposta più precisa alla domanda «Che hai?» è una soltanto...
«Che hai?». «Niente». Forse l’amore è tutto in quel niente, reiterato e irremovibile, l’infantilismo più adulto mai inventato. Niente, si ribatte a ogni broncio, perché quel niente è tutto: è la richiesta, all’altro/a, di capirci nonostante i silenzi, è il richiamo alla forma d’amore più pura che conosciamo, quella dell’utero materno, in cui ogni cosa e r a i l l uminata dal l ’o nnipotenza, quando seccature come la responsabilità, la coppia e i doveri non esistevano.
Tutto e niente: ecco l’amore secondo Alain de Botton, eclettico saggista che, ventitré anni dopo Esercizi d’amore, il piccolo trattato di divulgazione sentimentale che lo fece conoscere al mondo, torna a parlare di bronci, coccole, litigi, progetti, rotture e carezze. Insomma, di tutto quell’apparato liturgico che chiama Il corso dell’amore (questo il titolo del romanzo-saggio pubblicato da Guanda e che sarà presentato al Festivaletteratura di Mantova e poi a Milano al «Tempo delle donne») e che si incardina in dettagli, minuzie, in quei frammenti di un discorso amoroso che troppo spesso releghiamo nell’ambito delle sciocchezze, e che invece hanno bisogno di luce. E di dignità restituita.
Perché il corso dell’amore è qui, in quei «niente» da incasellare, rinominare, ricucire con pazienza. Romanzo-saggio, si diceva, perché, al pari del bestseller del 1993, anche qui la riflessione sulle dinamiche del sentimento scorre attraverso la storia di Rabih e Kirsten, entrambi architetti, lui di origini libanesi e lei scozzese. Quando lui le chiede di sposarlo «con tanta fiducia e sicurezza perché crede di essere una persona con cui è facile vivere», non immagina che, insieme a quel musetto lentigginoso, sta sposando anche il passato di Kirsten, un padre che l’ha abbandonata e la paura dell’assenza che riaffiora ogni volta che lui, Rabih, si allontana, anche solo per pochi giorni. E quando lei senza capire ha detto sì, non sa che, sposando quell’uomo ossessionato dagli spifferi, sta accogliendo anche un’infanzia segnata dalla guerra civile, in una Beirut precaria dove si dormiva in stanze piene di fessure.
C’era corrente. Ecco perché quelle cose come una porta lasciata aperta, l’aria condizionata alzata al massimo, il mancato rispetto degli orari in un appuntamento, un sms della buonanotte dimenticato, sono tutto e niente. Sembrano dettagli, ma nascondono mondi che si scontrano in quello che — ci hanno ripetuto decenni di letteratura, cinema, arte e tv — dovrebbe essere un idillio.
Ma non lo è. «Per come ce lo hanno insegnato, l’amore è soprattutto essere amati», osserva de Botton, quando invece, come scriveva Julia Kristeva, nel mai passato di moda In principio era l’amore (tradotto in Ita- lia da SE), questo somiglia piuttosto a un’economia di scambio, «un atto di fiducia che implica una restituzione». Forse l’amore è un atto di fede adulta in un sempiterno teatro per bambini: fermarsi un attimo davanti a quell’attacco di rabbia insensata a cui è difficile dare nome («Ma ti arrabbi per niente! », dice l’altro) e chiedersi da dove viene. Riscaldare quelle folate di gelo che arrivano da chissà quale Siberia emotiva quando, all’improvviso non la/lo riconosciamo più («Pensavo di sapere tutto ma non so niente di lei!») per una semplice frase avventata.
Ce lo ha insegnato Goethe ne Le affinità elettive: «Ogni parola che si pronuncia suscita l’idea del contrario», fa scrivere a Ottilie nel suo diario, in una lotta tra ragione e sentimento. Così anche ogni amore suscita l’idea di una ferocia nascosta, perché in ogni persona amata vediamo pure il suo opposto. E la paura di perderla, suggerisce de Botton in uno dei numerosi incisi con i quali punteggia la storia di Rabih e Kirsten, nasconde la paura di smarrire un pezzo di noi, proprio perché nell’amato ricerchiamo non tanto l’amore quanto la familiarità. Qualcosa che ci apparteneva e che ci completa (mancanza e dunque ricerca di compiutezza tramite il desiderio, secondo l’idea di Platone), sia questa bella o brutta, riprovevole o degna di ammirazione.
Quale tassello di noi stessi scegliamo di vedere nell’altro e di sposare senza riserve, in quel patto di fiducia cieca così simile alle transazioni finanziarie? Potrebbe essere un tassello giusto, condiviso anche dall’altro o potrebbe essere solo una nostra fantasia. Per cui capita che per decenni continuiamo a credere che quella persona ci appartenga quando questa se n’è andata da tempo. E va a finire come in quella bellissima scena di C’eravamo tanto amati, quando Gianni-Vittorio Gassman rivede Luciana-Stefania Sandrelli dopo anni e le dichiara, teatralmente, che non ha mai smesso di amarla, sentendosi rispondere, semplicemente: «Eh, ma io no!».
Colpa del romanticismo, di quel bagaglio di suggestioni che la cultura occidentale (per gli appassionati del tema: il filosofo svizzero Denis de Rougemont riteneva l’amore romantico una costruzione culturale comparsa nella Linguadoca del XII secolo) ha cucito intorno alla vita di coppia? Certamente, ma non solo.
C’è anche una grande difficoltà strutturale, in un mondo che vive di storytelling, a vedere l’amore come un qualcosa di concreto, un servizio, diciamolo, anche un dovere necessario al buon funzionamento della macchina a due. La persona che ci dorme accanto non è solo quella che, negli attacchi di gelosia, immaginiamo altrove e impegnata in chissà quali acrobazie illecite; così come, dice in sintesi de Botton, non è solo quella creatura debosciata che dimentica di pagare le bollette. Ma è anche una persona che mangia, beve, ci aiuta a riparare la tapparella o ci passa la maionese a tavola. Questa normalità dell’amore è molto difficile da immaginare, come insegna la storia di Rabih e Kirsten. Ecco perché a tutti i «Che hai?» la risposta più precisa è sempre «Niente».
rscorranese@corriere.it