Corriere della Sera - La Lettura
Julian Barnes: io sto con i vigliacchi Facile, troppo facile fare l’eroe
Lo scrittore dedica il nuovo romanzo al musicista Shostakovich, che cedette a minacce e lusinghe del regime sovietico. «Avrei fatto come lui» E sul dolore per la propria vedovanza: «Mi serve tenerezza, non la psichiatria»
Mosca, maggio 1937. Un uomo col cuore gravato dall’angoscia passa la notte sul pianerottolo di casa accanto all’ascensore. Come altri moscoviti caduti in disgrazia, ha con sé una valigetta con un cambio di vestiti. E nell’attesa, fuma una sigaretta dopo l’altra. Nell’Urss delle purghe di Stalin la polizia segreta arrivava col buio. E la gente raccontava una storia. Chi si faceva sorprendere nel proprio letto non tornava più. Mentre chi si faceva trovare pronto, aveva qualche possibilità di salvarsi. «È un’immagine straordinaria quella di Shostakovich che per dieci notti di seguito aspetta davanti all’ascensore i suoi aguzzini, mentre la moglie incinta dorme nel suo letto», dice Julian Barnes a «la Lettura», le lunghe gambe accavallate su un divano rosso dietro il quale, attraverso il vetro della finestra, si vedono le chiome degli alberi di una stradina del Nord di Londra. «Quando ho detto a Simon Rattle (il celebre direttore d’orchestra, ndr) che stavo scrivendo un libro su Shostakovich, la prima cosa che mi ha detto è: “La scena di lui che aspetta sul pianerottolo!”».
Julian Barnes ha da poco compiuto settant’anni, e anche se, a riprova del fatto che li ha festeggiati, in cucina ci sono cassette di vino e altri regali inviati dai suoi editori di tutto il mondo, è difficile dare un’età a quest’uomo dal lungo viso magro e gli occhi smaltati di azzurro. Siamo qui per parlare del suo nuovo libro, Il rumore del tempo (Einaudi, ottima traduzione di Susanna Basso): un romanzo breve, intenso, con una forte impronta letteraria e una struttura «cubista» che ricorda quella del suo primo grande successo, Il pappagallo di Flaubert, del 1984. «Lei mi chiede che cosa mi abbia attirato nella figura di Shostakovich», dice porgendo una tazza di quello che con divertimento chiama builder’s tea — tè forte, latte, zucchero — nella sala da biliardo un po’ in disuso al primo piano della sua casa vicino a Tufnell Park. «La risposta è ovviamente il tema dell’arte che entra in collisione con il potere. Ma anche la vigliaccheria di Shostakovich. Perché la vigliaccheria è più interessante del coraggio, soprattutto in letteratura. Dura di più, e non è apprezzata appieno», insiste con un’espressione maliziosa. «Essere eroi ha una certa immediatezza: ti esponi a un rischio, spari, vieni ucciso. Ma se sei codardo, è una cosa che ti tocca essere ogni giorno. Il gusto che si prova a leccare gli stivali altrui ce l’hai sempre in bocca».
Ad ascoltarlo parlare nel suo inglese elegante, è chiaro che quest’uomo, figlio di due insegnanti di letteratura francese, usa l’ironia per prendere le distanze. Del resto, i suoi romanzi (una ventina, tra cui Il senso di una fine, premio Booker 2011) si distinguono per la freddezza di stile con cui esplorano i lati oscuri dell’animo umano: le emozioni inconfessabili, gli atti di meschineria, la gelosia, la paranoia, la paura della morte, il tradimento dell’amicizia e dell’amore. In questo senso, si può dire che Barnes è l’autore perfetto per interpretare il dramma di Shostakovich, un genio della musica schiacciato dal pugno di Stalin e sceso ai più umilianti compromessi col potere.
È stata la lettura delle sue memorie raccolte da Solomon Volkov e uscite postume (non a caso) nel 1979 negli Stati Uniti col titolo Testimony ad affascinarlo, racconta Barnes. All’epoca, il libro — in