Corriere della Sera - La Lettura
È di nuovo fra noi ed è la solita tragedia
Gazmend Kapllani, albanese prima in Grecia poi negli Usa
«Chi era Otello per Shakespeare? Un nero africano? Un moro, un turco, un musulmano? In definitiva un “diverso” di cui la gente dubita fino a che lui stesso impara ad aver paura di sé. Ed è allora che scoppia la tragedia. Otello era un immigrato, magari un profugo, un convertito. E Shakespeare racconta ai suoi spettatori i pregiudizi che quattro secoli fa l’Europa aveva nei confronti degli “altri”. Non è cambiato molto. Gli ottomani, l’islam, gli scuri di pelle restano “stranieri”. Si stanno aggiornando gli stereotipi ma i mori di allora come i rifugiati di oggi sono violenti, barbari, inassimilabili. Purtroppo in questo caso la ripetitività non ci conforta, perché se l’Europa non cambia se stessa, non impara dai propri errori, il risultato sarà lo stesso tragico che si è già visto con Otello e con la storia». Gazmend Kapllani nel 1991 avrebbe potuto salire su una delle navi che dall’Albania portavano in Italia ed essere uno dei 27 mila fuggiaschi che sono arrivati da noi. Invece decise di attraversare a piedi il confine con la Grecia.
Non aveva ancora 30 anni e fu lavapiatti, strillone, operaio. Si laureò in Lettere, prese un master, divenne scrittore (in Italia, per Del Vecchio Editore, è uscito Breve diario di frontiera), reporter, commentatore per uno dei giornali più importanti di Atene. «Fino a che mi licenziarono. Il primo giornalista cacciato per la crisi economica ma le ragioni profonde avevano più a che fare con la discriminazione che con la redditività. La verità è che la Grecia non mi voleva. Dopo 25 anni in cui ho pagato le tasse, scritto libri in greco, pensato in greco, vissuto da greco, la Grecia rifiutava di darmi la cittadinanza. Che cosa dovevo fare? Lasciarmi ghettizzare? Ho cercato un altro posto che mi volesse».
La terra delle opportunità non è stata neppure per questo migrante d’eccezione l’Europa, ma l’America: «Sono uno specchio della malattia europea. È una vergogna che nell’Unione viva gente da decenni senza essere riconosciuta, che i bambini nati in Europa non siano cittadini. È miope non riconoscere l’Europa come continente di immigrati. Vivo negli Stati Uniti da quattro anni e ho un contratto a tempo indeterminato. Sono stato a Harvard e ora insegno all’Emerson College e al Wellesley College dove studiarono Hillary Clinton e Madeleine Albright. Spiego scrittura creativa e storia europea t r a mite l a l e t te r a t ur a e i film».
Anche gli Stati Uniti però hanno un problema di razzismo.
«Se è per questo hanno anche Donald Trump che demonizza gli immigrati. Trump ha monopolizzato il discorso pubblico tra chi ha (e non vorrebbe perdere) e chi vorrebbe (ma ancora non ha). Siccome gli uni sono più numerosi degli altri, e oltretutto sono gli unici con diritto di voto, è un’operazione di marketing astuta. Ma rimane una politica irresponsabile che se avesse successo distruggerebbe il Paese. E non solo. Gli Usa rimangono comunque più avanti dell’Ue. Fra quanti anni l’Italia avrà un presidente di origine straniera?».
Perché con gli Usa è più indulgente che con l’Europa?
«L’Europa è il continente dove il nazionalismo incontra il razzismo. L’esito sa di camicie brune e guerra civile. Il Novecento è un secolo di conflitti tra nazionalismi: dopo la Prima guerra mondiale i nuovi muri hanno portato alla seconda, a Mussolini, a Hitler fino alla guerra jugoslava e questa crisi dei migranti tragicomica. In mezzo c’è stato il sogno di Adenauer, Spinelli, Monnet. Ri c o r d o i l b r i t a n n i c o E n o c h Powell che negli anni Sessanta parlava di suicidio per la società che accetta i non-bianchi, in sostanza i vari Otello della sua epoca. Negli anni Trenta o Quaranta dicevano “via le minoranze” e oggi c’è chi lo ripete in modo più soft. È una scelta non solo immorale ma suicida».
Però il terrorismo è una realtà, i conflitti economici e sociali sono veri. Il suo rischia di essere un discorso buonista che si rifiuta di considerare ciò che succede.
«Al contrario. Noi tendiamo a vedere l’immigrazione come un incidente storico, un dato occasionale, provvisorio, e non l’ingrediente che ha permesso lo sviluppo delle società più dinamiche e avanzate. La migrazione impoverisce i Paesi di partenza, non quelli di arrivo. Io non credo alle società multiculturali con lingue diverse ma credo che l’assimilazione creativa sia possibile. Per questo ci vuole almeno lo ius soli per le seconde generazioni. Rischiamo la guerra civile tra nativi e immigrati».
Michel Houellebecq ha parlato di sottomissione europea all’islam a causa di atteggiamenti come il suo.
«Quel libro è ridicolo. Houellebecq non ha talento nel propagare l’odio. I protocolli dei savi di Sion sono stati un bestseller, Céline nel chiedere l’intervento na z i s t a p a r l a va i n modo p i ù chiaro. Houellebecq ha paura di perdere l’identità? Si rassegni, l’identità cambia in continuazione e chi non cambia è destinato a morire. La Corea del Nord non vuole cambiare come l’Albania di Enver Hoxha. Ma sono cadaveri della storia e si sa che fine fa Narciso a voler rimirare se stesso».
Che cosa prevarrà? La chiusura o l’assimilazione?
«Siamo a un bivio. Possiamo costruire più muri e dare il via libera al neofascismo. Oppure s c e g l i e r e p i ù d e mo c r a z i a e un’Europa transnazionale. Personalmente non mi sento come i personaggi paranoici di tanti romanzi che finiscono per autodistruggersi, preferisco non tornare alla legge della giungla, credo che l’essere umano sia mimetico e impari dall’ambiente. Così meglio tratteremo gli immigrati oggi, più diventeranno domani gli europei democratici che noi stessi vorremmo essere».