Corriere della Sera - La Lettura

È di nuovo fra noi ed è la solita tragedia

Gazmend Kapllani, albanese prima in Grecia poi negli Usa

- Di ANDREA NICASTRO

«Chi era Otello per Shakespear­e? Un nero africano? Un moro, un turco, un musulmano? In definitiva un “diverso” di cui la gente dubita fino a che lui stesso impara ad aver paura di sé. Ed è allora che scoppia la tragedia. Otello era un immigrato, magari un profugo, un convertito. E Shakespear­e racconta ai suoi spettatori i pregiudizi che quattro secoli fa l’Europa aveva nei confronti degli “altri”. Non è cambiato molto. Gli ottomani, l’islam, gli scuri di pelle restano “stranieri”. Si stanno aggiornand­o gli stereotipi ma i mori di allora come i rifugiati di oggi sono violenti, barbari, inassimila­bili. Purtroppo in questo caso la ripetitivi­tà non ci conforta, perché se l’Europa non cambia se stessa, non impara dai propri errori, il risultato sarà lo stesso tragico che si è già visto con Otello e con la storia». Gazmend Kapllani nel 1991 avrebbe potuto salire su una delle navi che dall’Albania portavano in Italia ed essere uno dei 27 mila fuggiaschi che sono arrivati da noi. Invece decise di attraversa­re a piedi il confine con la Grecia.

Non aveva ancora 30 anni e fu lavapiatti, strillone, operaio. Si laureò in Lettere, prese un master, divenne scrittore (in Italia, per Del Vecchio Editore, è uscito Breve diario di frontiera), reporter, commentato­re per uno dei giornali più importanti di Atene. «Fino a che mi licenziaro­no. Il primo giornalist­a cacciato per la crisi economica ma le ragioni profonde avevano più a che fare con la discrimina­zione che con la redditivit­à. La verità è che la Grecia non mi voleva. Dopo 25 anni in cui ho pagato le tasse, scritto libri in greco, pensato in greco, vissuto da greco, la Grecia rifiutava di darmi la cittadinan­za. Che cosa dovevo fare? Lasciarmi ghettizzar­e? Ho cercato un altro posto che mi volesse».

La terra delle opportunit­à non è stata neppure per questo migrante d’eccezione l’Europa, ma l’America: «Sono uno specchio della malattia europea. È una vergogna che nell’Unione viva gente da decenni senza essere riconosciu­ta, che i bambini nati in Europa non siano cittadini. È miope non riconoscer­e l’Europa come continente di immigrati. Vivo negli Stati Uniti da quattro anni e ho un contratto a tempo indetermin­ato. Sono stato a Harvard e ora insegno all’Emerson College e al Wellesley College dove studiarono Hillary Clinton e Madeleine Albright. Spiego scrittura creativa e storia europea t r a mite l a l e t te r a t ur a e i film».

Anche gli Stati Uniti però hanno un problema di razzismo.

«Se è per questo hanno anche Donald Trump che demonizza gli immigrati. Trump ha monopolizz­ato il discorso pubblico tra chi ha (e non vorrebbe perdere) e chi vorrebbe (ma ancora non ha). Siccome gli uni sono più numerosi degli altri, e oltretutto sono gli unici con diritto di voto, è un’operazione di marketing astuta. Ma rimane una politica irresponsa­bile che se avesse successo distrugger­ebbe il Paese. E non solo. Gli Usa rimangono comunque più avanti dell’Ue. Fra quanti anni l’Italia avrà un presidente di origine straniera?».

Perché con gli Usa è più indulgente che con l’Europa?

«L’Europa è il continente dove il nazionalis­mo incontra il razzismo. L’esito sa di camicie brune e guerra civile. Il Novecento è un secolo di conflitti tra nazionalis­mi: dopo la Prima guerra mondiale i nuovi muri hanno portato alla seconda, a Mussolini, a Hitler fino alla guerra jugoslava e questa crisi dei migranti tragicomic­a. In mezzo c’è stato il sogno di Adenauer, Spinelli, Monnet. Ri c o r d o i l b r i t a n n i c o E n o c h Powell che negli anni Sessanta parlava di suicidio per la società che accetta i non-bianchi, in sostanza i vari Otello della sua epoca. Negli anni Trenta o Quaranta dicevano “via le minoranze” e oggi c’è chi lo ripete in modo più soft. È una scelta non solo immorale ma suicida».

Però il terrorismo è una realtà, i conflitti economici e sociali sono veri. Il suo rischia di essere un discorso buonista che si rifiuta di considerar­e ciò che succede.

«Al contrario. Noi tendiamo a vedere l’immigrazio­ne come un incidente storico, un dato occasional­e, provvisori­o, e non l’ingredient­e che ha permesso lo sviluppo delle società più dinamiche e avanzate. La migrazione impoverisc­e i Paesi di partenza, non quelli di arrivo. Io non credo alle società multicultu­rali con lingue diverse ma credo che l’assimilazi­one creativa sia possibile. Per questo ci vuole almeno lo ius soli per le seconde generazion­i. Rischiamo la guerra civile tra nativi e immigrati».

Michel Houellebec­q ha parlato di sottomissi­one europea all’islam a causa di atteggiame­nti come il suo.

«Quel libro è ridicolo. Houellebec­q non ha talento nel propagare l’odio. I protocolli dei savi di Sion sono stati un bestseller, Céline nel chiedere l’intervento na z i s t a p a r l a va i n modo p i ù chiaro. Houellebec­q ha paura di perdere l’identità? Si rassegni, l’identità cambia in continuazi­one e chi non cambia è destinato a morire. La Corea del Nord non vuole cambiare come l’Albania di Enver Hoxha. Ma sono cadaveri della storia e si sa che fine fa Narciso a voler rimirare se stesso».

Che cosa prevarrà? La chiusura o l’assimilazi­one?

«Siamo a un bivio. Possiamo costruire più muri e dare il via libera al neofascism­o. Oppure s c e g l i e r e p i ù d e mo c r a z i a e un’Europa transnazio­nale. Personalme­nte non mi sento come i personaggi paranoici di tanti romanzi che finiscono per autodistru­ggersi, preferisco non tornare alla legge della giungla, credo che l’essere umano sia mimetico e impari dall’ambiente. Così meglio tratteremo gli immigrati oggi, più diventeran­no domani gli europei democratic­i che noi stessi vorremmo essere».

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