Corriere della Sera - La Lettura
La disfatta della Germania romana
Nel 9 dopo Cristo tre legioni caddero in un agguato nella selva di Teutoburgo e furono annientate dai guerrieri di Arminio. Anche se la sconfitta pareva rimediabile l’impero abbandonò le terre a est del Reno. Un romanzo di Valerio Massimo Manfredi
Le cupe foreste del Nord, i corpi insepolti dei legionari, i teschi affissi al tronco degli alberi, i centurioni sacrificati su are pagane. Tutti gli elementi di un romanzo sono presenti nell’episodio della selva di Teutoburgo; e un appassionante romanzo ne ha tratto Valerio Massimo Manfredi, Teutoburgo (Mondadori). Nell’imminenza dell’anniversario della battaglia, vediamo di ripercorrere i fatti cui il libro s’ispira.
Nei giorni tra il 9 e il 12 settembre del 9 d.C., presso l’odierna Kalkriese, in Bassa Sassonia, si decise il destino della Germania. Perseguita per oltre vent’anni da grandi generali come Druso e Tiberio, figliastri dell’imperatore Augusto, la conquista delle terre tra il Reno e l’Elba avrebbe dovuto realizzare il collegamento con la linea del Danubio, eliminando l’ansa renano-danubiana e abbreviando i confini dell’Impero romano. Nel 6 d.C. per completare il progetto restava ormai solo da annettere l’enclave costituita, nell’attuale Boemia, dallo Stato di re Marobod, annettendo i Marcomanni. E tuttavia, mentre undici legioni già convergevano sull’obiettivo e il futuro imperatore Tiberio era a soli cinque giorni di marcia dal cuore del territorio nemico, divampò d’improvviso nell’Illirico, anch’esso di conquista recente, una grande rivolta, che obbligò le armate di Roma a invertire la marcia; e al figliastro di Augusto occorsero poi due difficili campagne per costringere alla resa Dalmati e Pannoni.
Duramente impegnata altrove, Roma aveva abbassato la guardia proprio nei confronti delle genti germaniche; e si era convinta che il controllo delle terre tra il Reno e l’Elba fosse ormai acquisito. Mentre l’esperimento propagandistico dell’Ara Ubiorum, l’altare che, presso l’attuale Colonia, riuniva nel segno del culto reso a Roma e all’imperatore le élite locali, sembrava fecondo di risultati, secondo la prassi già sperimentata in Gallia i notabili più insigni veni va no co l mati di onori per guadagnarsene la fedeltà; e questo faceva sì che quasi tutte le tribù germaniche accettassero di fornire truppe all’impero. Da questi ranghi venne un protagonista del romanzo di Manfredi, colui che, secondo Tacito, fu «l’indubbio liberatore della Germania»: Armin, Caio Giulio Arminio secondo l’onomastica romana, figlio di Segimero, della tribù dei Cherusci, di stirpe regia ma cittadino romano, equestre e forse prefetto di un reparto ausiliario tratto dalla sua tribù.
Il contegno tranquillo tenuto dai Germani durante la rivolta illirica aveva rassicurato i Romani e aveva contribuito ad allentarne la sorveglianza. Augusto aveva deciso di affidare l’area a Quintilio Varo, un congiunto ricco di esperienza giuridica, perché la organizzasse; e aveva destinato i generali migliori all’altro difficile fronte. L’inettitudine di Varo emerge chiarissima da un celebre profilo di Velleio Patercolo: «Uomo di temperamento mite, di costumi tranquilli... avvezzo alla tranquilla attività del campo piuttosto che alla pratica delle armi..., penetrato nel bel mezzo della Germania quasi si trovasse tra uomini amanti della pace..., rovinò se stesso e un esercito magnifico per mancanza della cautela, dell’abilità, dell’astuzia proprie di un generale».
A sollevare i Germani contribuì anche la sua pretesa di riscuotere i tributi e di amministrare la giustizia secondo il costume romano: per Cassio Dione, malgrado i Germani preferissero «i passati ordinamenti al dominio di un popolo straniero», Varo li costrinse «a un mutamento troppo rapido, imponendo loro ordini come se si rivolgesse a schiavi e sottoponendoli a una tassazione eccessiva, come accade per gli Stati sottomessi», mentre secondo Velleio egli usava «amministrare la giustizia quasi fosse un pretore urbano nel foro di Roma, non il comandante di un esercito in Germania».
A sancire il fallimento della politica augustea, i maggiori consensi alla rivolta vennero proprio dal milieu che gravitava attorno all’ara di Colonia, il cui sacerdote, Segimund, figlio del filoromano Segestes, «strappò le bende sacerdotali, profugo presso i ribelli», e venne da Segimero e da Arminio. Pur se alcune soltanto delle genti germaniche — i Cherusci, appunto, e i Bructeri, i Chatti e i Marsi, gli Usipeti e i Tencteri — lo seguirono, l’imperizia e l’imprudenza di Varo trascinarono l’esercito romano — tre legioni (la XVII, la XVIII, la XIX), accompagnate da sei coorti ausiliarie e da tre ali di cavalleria, 20 mila uomini in tutto — verso il disastro.
Il legato prima rifiutò di ascoltare Segestes, che aveva denunciato la congiura; poi cadde ciecamente nella trappola. La stagione declinava, e le legioni avrebbero dovuto tornare ai campi invernali, puntando dalla zona del Weser, sotto l’attuale Minden, verso l’alto corso della Lippe, dove esisteva una via sicura, e raggiungendo Haltern (la romana Aliso), poi il Reno. Il legato si lasciò invece attirare (per la notizia di una rivolta dei Bructeri?) verso le regioni a nord-ovest, del tutto ignote; e si inoltrò in una zona accidentata, coperta di fitte foreste, gravando inoltre il suo esercito, una guarnigione in ripiegamento, con un pesante convoglio di carri da trasporto e numerosi civili, bambini e donne legati ai legionari. Il luogo dell’agguato, nella selva di Teutoburgo, è stato identificato, grazie a inequivocabili conferme archeologiche, nell’area di Kalkriese, presso Osnabrück, in Bassa Sassonia.
Quella di Teutoburgo fu un’imboscata perfetta. A guidare i Romani verso la trappola era, infatti, lo stesso Arminio, che l’aveva predisposta e curata nei particolari: dopo aver scelto il luogo dell’agguato, il punto cioè in cui la gran- de palude a nord, ora scomparsa, più si accostava all’altura di Kalkriese e dove il varco era ristretto a 80-120 metri soltanto, fece deviare il tracciato del sentiero che le legioni avrebbero percorso, allo scopo di precludere loro lo scampo; fece costruire, lungo la parte finale, un terrapieno lungo alcune centinaia di metri e spesso 4-5, per appostarvi parte degli uomini; concentrò infine il resto delle truppe, 25 mila guerrieri o più, lungo i fianchi del colle, sulla sinistra dell’armata romana, costretta a marciare costeggiando la palude.
Già durante il primo giorno, secondo Cassio Dione, cominciò il calvario delle legioni. Grazie alla conoscenza dei luoghi, i Germani attorniarono «i Romani con un’azione preordinata, muovendosi all’interno della foresta»; e, dopo averli bersagliati dal fitto della selva, presero ad assalirli mentre «procedevano in disordine, a causa dello schieramento con i carri, e... con gli uomini che non avevano indossato l’armamento necessario... Numericamente inferiori..., questi subivano molte perdite senza riuscire ad infliggerne altrettante». Dopo aver trascorso la notte accampati a difesa su un’altura, il giorno seguente i Romani si liberarono della maggior parte dei carriaggi e dei bagagli superflui e ripresero la marcia nella speranza di raggiungere il Reno; ma, attaccati di continuo dal nemico, presente dovunque, e impotenti a schierarsi o a serrare i ranghi, furono ulteriormente decimati.
Il terzo giorno, infine, il calvario delle legioni si concluse. Sotto la sferza del vento e della pioggia che rendeva scivolose le armi, opposti a nemici più agili perché meno pesantemente armati e sempre in condizione di rifugiarsi nella vicina foresta o dietro il terrapieno da cui colpivano, i Romani tentarono da ultimo di trincerarsi dietro i pochi carri rimasti. Ma l’eco dello scontro aveva richiamato sempre nuovi nemici; sicché, ricorda Cassio Dione, Varo e gli altri ufficiali, orma i d i s p e r a t i , «temendo di essere catturati viv i o d i mo r i r e per mano dei Germani... compirono un suicidio collettivo». Non a p p e n a s i diffuse la notizia, molti Romani smisero di combattere preferendo uccidersi a loro volta o fuggire. I resti del l ’e s erc i to di Va r o e r a n o o r - mai allo sbando; le fonti narrano episodi di coraggio alternati a quelli di codardia tra le file dei legionari e descrivono la sorte dei superstiti, in gran parte massacrati anche sotto forma di sacrifici rituali.
Il panico che a Roma seguì la disfatta era, in fondo, irrazionale. Al di fuori delle loro foreste le orde germaniche non avrebbero avuto speranza contro la superiorità tattica delle legioni. Meno grave di altre — si pensi a quella di Arausio (oggi Orange, 105 a.C.) che, a opera di Cimbri e Teutoni, costò più morti di Canne (e le cui impressionanti vestigia stanno riemergendo oggi in Provenza...) — la sconfitta sarebbe stata rimediabile, solo a volerlo. Non volle la riconquista un Augusto vecchio e distrutto da dolore e rimorsi, non la ritennero conveniente i successori. Quanto al «liberatore della Germania», morì trentasettenne per mano di congiunti che ritenevano eccessive le sue aspirazioni di potere: era il 21 dopo Cristo.