Corriere della Sera - La Lettura

LA PELLE DI LUCY COLOR DEI FUNGHI

- Di ALESSIO TORINO

Al primo anno delle scuole superiori, la professore­ssa d’italiano ci diede da leggere per l’estate dieci romanzi. Dovevamo sceglierli da una lista di cinquanta, quasi tutti classici italiani del secondo Novecento. Con un accaniment­o che non mi so spiegare me li lessi tutti. Per arrivare in fondo dovetti valicare qualche duna di cui non si vedeva la fine. Tra i titoli, la maggior parte dei posti riservati, come inevitabil­e, era per la triade ufficiale Calvino-PaveseVitt­orini. La letteratur­a è anche noia, questo è sicuro. Però qualche tempo dopo il prof di storia dell’arte ci consigliò di leggere Dissipatio H.G. di Guido Morselli. Seguii il consiglio e lì trovai qualcosa in cui non mi ero mai imbattuto. Se c’è una parola che rende l’idea di questo qualcosa è libertà, ma forse un’altra la rende ancora meglio, intimità. Pesca alla trota in America di Brautigan, Il re degli ontani di Tournier, Corporale di Volponi sono altri esempi di libri che finiscono difficilme­nte in quel genere di liste per l’estate. Sarà perché gli autori scelgono strade tutte loro, soltanto loro. Eppure è proprio così che dimostrano di riporre una fiducia assoluta nel lettore; chiedono di essere conosciuti come sono e vogliono la nostra intimità. Trilobiti di Breece D’J Pancake è un altro di questi fiori selvatici che fa storia a sé. Da qualche mese minimum fax lo ha riproposto nella nuova traduzione di Cristiana Mennella (pagine 191, € 16), dopo che la raccolta pubblicata postuma nel 1983 era uscita da noi una decina di anni fa per Isbn e diventata introvabil­e. Di che cosa parlano i racconti di Pancake? Certo, della desolata periferia americana, dei motel fuori mano, dei carro-attrezzi, dei campi di canna da zucchero, della polvere che alzano i trattori e della ruggine che rimane. Però parlano soprattutt­o di Lucy che «portava solo un filo d’ombretto verde e la carnagione aveva la grana e il colore dei funghi». Basta un paragone, un pezzo di frase, per sentire una scrittura tanto umile quanto preziosa, in bilico tra la condanna alla solitudine e il desiderio di vicinanza. «Chissà perché mi dannavo tanto per quei trilobiti» si chiede a un certo punto una voce. Nessuno sa la risposta, né la saprà mai.

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