Corriere della Sera - La Lettura

E il carabinier­e sorrise alla poesia

Il Sud spopolato, uno zuccherifi­cio abbandonat­o dove «si sentono le voci di chi ci lavorava», i versi di Scotellaro Poi arrivò una troupe cinematogr­afica senza permessi

- Di DAVIDE FERRARIO

L’anno prossimo sarà un secolo da Caporetto e ho deciso di girare un film sulle tante Caporetto d’Italia. L’ultima, forse definitiva, è la Caporetto demografic­a. Perciò stiamo battendo la terra dell’abbandono che va dall’Alta Irpinia alla Puglia occidental­e alla Lucania, una lunga teoria di paesi semivuoti, silenziosi. Oggi il set è lo zuccherifi­cio di Policoro (Matera), una delle tante cattedrali dell’industrial­izzazione forzata in rovina. Ci ho portato un attore per leggervi un testo di Rocco Scotellaro, poeta e politico morto trentenne nel 1953: «Noi non ci bagneremo nel mare/ Andremo a mietere, noi/ E il sole ci cuocerà come la crosta del pane»...

Mentre siamo all’ultimo piano della fabbrica senza tetto che sembra San Galgano, a girare sull’unica passerella rimasta in piedi, vedo che di sotto, dove la troupe ha fatto base, è arrivata un’auto dei carabinier­i. C’era da aspettarse­lo. Non abbiamo chiesto nessun permesso, per entrare, ma d’altra parte il cancello arrugginit­o era aperto. Affretto le riprese e scendiamo. I carabinier­i se ne sono andati e Giorgio Mastrorocc­o, lo sceneggiat­ore del film, mi racconta che cos’è successo.

Dice che i carabinier­i erano due, un maresciall­o e un appuntato. Che ovviamente hanno chiesto che cosa stessimo facendo e che lui ha cercato di spiegargli­elo. Con grande sorpresa sua, alla parola «poesia» il maresciall­o ha sorriso. Conosceva Rocco Scotellaro, ne ha citato qualche verso. Hanno cominciato a parlare della storia della fabbrica, di come una volta lì intorno si stendesser­o i campi di barbabieto­le, dell’odore dolciastro che si respirava in città finché la Ferrero, all’inizio degli anni Novanta, cambiò fornitore. Il maresciall­o, racconta Giorgio, ha detto a un certo punto: «In questo posto bisogna stare in silenzio. Allora senti le voci di quelli che ci hanno lavorato». Poi pare abbia augurato buon lavoro e i due se ne sono andati.

Certe volte le scene da film capitano fuori dal set e sono più belle di quelle che giri. E ti fanno capire perché imprese come «La luna e i calanchi», il festival ideato da Franco Arminio che si svolge ad Aliano, il paese del confino di Carlo Levi a pochi chilometri da qui, non siano solo gesti nobilmente donchiscio­tteschi, ma atti di resistenza culturale e umana radicati nella tradizione di un popolo.

Da anni Arminio, che ci fa da guida per il film, scrive di «paesologia», la disciplina che si è inventato e che prova a raccontare quello che succede nel Sud appenninic­o, dove l’emigrazion­e e la denatalità hanno prodotto il paesaggio geografico e antropolog­ico del Grande Abbandono. «Una volta — dice Arminio — il Meridione era povero, oggi è desolato. Non si tratta di fare rivendicaz­ioni politiche e sociali, si tratta di narrare una condizione esistenzia­le». Ma non basta osservare rasseg na t i o c o mp ia c i u t i . Pe r qu e s t o lo scrittore si occupa anche di questioni molto concrete del territorio, organizza quelle che lui chiama «comunità provvisori­e», e ogni anno ne porta una ad Aliano: qualche migliaio di persone che invadono pacificame­nte il paese per ascoltare poeti, musicisti, intellettu­ali, performer. Scordatevi il classico festival della letteratur­a. Qui non c’è un palco vero e proprio e gli orari sono fluidi. Gli appuntamen­ti, sul programma stampato, suonano così: «Di mattina», «Verso sera», «Più o meno a mezzanotte», «All’alba». Perché il festival non si ferma mai. A qualsiasi ora la co- munità provvisori­a di Aliano, dove pubblico e artisti si mescolano e si scambiano di ruolo, è in moto, insonne, a parlare, discutere, pensare. Il tutto con un budget ridicolo, perché il festival è reso possibile dalla popolazion­e locale, che apre le case ai partecipan­ti.

D’altra parte, Arminio non ha gran fiducia nei politici: «Osserva come si comportano quando gli capita di dover ascoltare un poeta. Ci provano per qualche istante ma poi cominciano a parlare col vicino. È come se non ce la facessero ad ascoltare la poesia, gli fa paura. Gli fa paura dover ascoltare in silenzio. Sentire il peso delle parole. Allora la loro reazione è voltarsi a sussurrare a chi gli sta accanto, devono scappare da qualcosa che, intuiscono, li spiazza e che temono di affrontare…». Forse è proprio per questo che Rocco Scotellaro, pur eletto sindaco di Tricarico nel 1946 (a 23 anni, il più giovane d’Italia), lasciò presto la politica ufficiale per dedicarsi del tutto alla letteratur­a. Nei quattro giorni in cui si svolge, verso la fine di agosto, «La luna e i calanchi» offre di tutto: momenti altissimi e ingenuità colossali, ospiti importanti e sconosciut­i autori locali, facce di giovani e volti di sessantenn­i che qui ritrovano, sorpresi, qualcosa di quand’erano ventenni. E intorno c’è il paese, quello raccontato da Levi in Cristo si è fermato a Eboli, che fin dall’arrivo offre una precisa immagine delle contraddiz­ioni italiane: da una parte ti accoglie l’immancabil­e piazza Garibaldi, dall’altra ti affacci sulla Fossa del Bersaglier­e, un orrido profondo centinaia di metri in cui gli abitanti precipitar­ono uno sventurato militare piemontese perdutosi tra i monti al tempo della guerra al brigantagg­io.

Può la poesia salvare il Sud, o qualsiasi altra cosa? La ragione ti dice di no, ma un’inspiegabi­le forma di speranza, talvolta, ti rivela il paradosso per il quale la poesia è inutile, ma necessaria. Come quando Arminio trascina la sua comunità provvisori­a in mezzo ai calanchi che circondano il paese in una specie di procession­e laica. Nell’incanto di uno dei tanti meraviglio­si scenari naturali del Mezzogiorn­o d’Italia, la folla si ferma ad ascoltare versi e musica. Arminio, però, sta sempre attento a combinare l’incanto con l’ironia, a non prendersi troppo sul serio. Alla fine della camminata organizza una scalata ai calanchi. Bambini, giovani, e anche gente su d’età si cimenta in un’impresa che è insieme festa paesana e metafora. Sul programma del festival, rivolto ai giovani del Sud, sta scritto: «Uscite, contestate con durezza i ladri del vostro futuro: sono qui come a Milano e a Francofort­e, guardateli bene e fategli sentire il vostro disprezzo. Siate dolci con i deboli e feroci con i potenti. Il Sud italiano è un inganno e un prodigio. Pensate che la vita è colossale. Siate i ragazzi e le ragazze del prodigio».

Sembra di sentire la voce di Rocco Scotellaro. Così, lasciando lo zuccherifi­cio di Policoro, decidiamo di fare anche noi un gesto inutile ma necessario. Abbiamo dei grandi fogli su cui abbiamo scritto le parole di Scotellaro: sono i «gobbi» che servivano all’attore, Mauro Leuce, per memorizzar­e i versi durante le riprese. Dovremmo buttarli in qualche cassonetto della carta usata, ma invece li lasciamo lì, apposta, in bella vista, per chiunque passi per qualsiasi ragione.

Sono fragilissi­me parole scritte sulla carta. Solo che — a differenza del ferro e dell’acciaio in mezzo a cui le lasciamo — non temono né la ruggine né l’oblio.

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 ??  ?? Le immagini Qui sopra: alcuni versi di Rocco Scotellaro abbandonat­i davanti all’ex zuccherifi­cio di Policoro (qui accanto a sinistra l’interno). Nelle due immagini più piccole, dall’alto: la «scalata ai calanchi» e un momento del festival nell’abitato...
Le immagini Qui sopra: alcuni versi di Rocco Scotellaro abbandonat­i davanti all’ex zuccherifi­cio di Policoro (qui accanto a sinistra l’interno). Nelle due immagini più piccole, dall’alto: la «scalata ai calanchi» e un momento del festival nell’abitato...
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