Corriere della Sera - La Lettura
Utopia o Distopia, i due volti di More
Confronti Cinquecento anni fa il grande pensatore inglese pubblicava un’opera proverbiale ma tuttora controversa Un modello di umanesimo o un disegno oppressivo? Abbiamo chiesto il parere di due studiosi su posizioni opposte L’apertura alla libertà relig
Attenzione al contesto Alcune esasperazioni collettiviste vanno lette in controluce rispetto alla brutalità e alle ingiustizie della società del tempo
Quando nel 1516 apparve la prima edizione dell’Utopia di Thomas More, l’Europa era alla vigilia del profondo rivolgimento che l’anno successivo sarebbe stato innescato dall’affissione delle tesi di Lutero. Già da tempo, però, il tema della riforma della Chiesa era all’ordine del giorno nel dibattito dei circoli umanistici di cui More, amico e corrispondente di Erasmo da Rotterdam, che gli dedicherà l’Elogio della follia, era esponente di spicco. Non stupisce che la descrizione dell’isola di Utopia e delle sue sagge istituzioni da parte di Raffaele Itlodeo, l’immaginario interlocutore di More, si concluda con una lunga sezione sui costumi religiosi degli abitanti.
Gli utopiani praticano una grande varietà di culti, a seconda delle città presenti sull’isola: dalla venerazione degli astri a quella dei grandi uomini del passato, infine a concezioni più spirituali. Tutti, però, concordano sull’esistenza di un essere supremo, creatore del mondo e artefice della provvidenza che lo guida, chiamato nella lingua locale Mitra, pur dissentendo sulla sua precisa identificazione. Le celebrazioni si svolgono in edifici maestosi, ma abbastanza oscuri, in modo che la debole illuminazione favorisca il raccoglimento e la preghiera. I riti sono organizzati in modo da consentire la partecipazione degli appartenenti a ciascuna delle fedi presenti sull’isola, accomunate nel culto del supremo essere divino. Per questo non vi sono immagini nei templi di Utopia, ma ciascuno può soddisfare in forma privata tra le mura domestiche le esigenze particolari del proprio credo.
La grande varietà religiosa si combina con un principio inderogabile, stabilito dal fondatore dell’isola, Utopo: ciascuno può seguire la religione che meglio crede; il proselitismo è ammesso, ma solo a condizione che avvenga per via di convinzione, senza violenze verbali o materiali; chi suscita controversie di carattere religioso viene punito con l’esilio o con la riduzione in schiavitù (pratica che ai tempi di Moro era l’unica alternativa alla pena di morte per ladri e vagabondi). In questo modo, Utopo agiva a vantaggio della stessa religione, perché non si può essere certi che la varietà dei culti non sia stata voluta dalla somma divinità per soccorrere il debole intelletto umano. La religione migliore, ammesso che ne esista una, potrà imporsi con l’evidenza della sua verità; al contrario, se affidasse alle armi il suo destino, ne uscirebbe sicuramente sconfitta, dato che i peggiori sono anche più ostinati e pervicaci. Persino chi nega l’immortalità dell’anima e la provvidenza, quindi l’esistenza di premi e punizioni nell’aldilà, viene tollerato, anche se risulta escluso dalle funzioni pubbliche, in quanto interessato solo alla vita materiale ed esposto alla cupidigia che induce a violare il divieto di proprietà privata alla base della società di Utopia.
Una sottile ambiguità percorre l’intero testo di More, che quando parla in prima persona mostra più di un dubbio sulla praticabilità di quanto racconta Itlodeo (che poi vuol dire qualcosa come «chiacchierone»). In realtà, alcune esasperazioni collettiviste vanno lette in controluce, rispetto alla violenza e all’avidità della società del tempo. E però il modello religioso proposto dall’Utopia, fatto di tolleranza e fiducia nella ragione dell’uomo, coincide con quello della tradizione umanisti- ca di More e di Erasmo, che vedeva nel monoteismo provvidenzialista la concezione teologica originaria alla base di tutte le esperienze religiose autentiche, culminanti nel cristianesimo. L’interesse, se non l’entusiasmo, manifestato dagli utopiani per quest’ultimo, però, non si fonda sulla dimensione intellettuale, quanto invece sulla vita comune praticata da Cristo e dai suoi discepoli e — chiosa ItlodeoMore — «ancora si pratica presso le più genuine associazioni cristiane» quali erano, ad esempio, i «fratelli della vita comune» cui anche Erasmo era legato.
Pure per un intellettuale come More, il tratto decisivo dell’esperienza cristiana passa dalla vita concreta, anche senza inseguire l’utopia comunisteggiante. Messo alle strette dal re d’Inghilterra Enrico VIII, More accetterà di morire per non sacrificare la sua coscienza religiosa all’opportunismo politico.