Corriere della Sera - La Lettura

Risonanza

Il mondo corre troppo: rischiamo di essere travolti Soluzioni? Un nuovo dialogo tra le persone e i popoli

- conversazi­one di DONATELLA DI CESARE con HARTMUT ROSA

DONATELLA DI CESARE — Pur insegnando sociologia, lei è un filosofo che osserva da vicino i cambiament­i della società. Perciò è considerat­o una delle voci più promettent­i della filosofia tedesca contempora­nea. D’altronde lei è l’ultimo esponente della prestigios­a «teoria critica», che inizia con Adorno, Marcuse, Horkheimer, e giunge fino a Habermas e Honneth. Mi sembra, però, che lei sia distante dai propositi riformisti e dai toni normativi di Habermas e Honneth, ai quali, però, resta legato. Piuttosto lei mette l’accento sulla critica al postcapita­lismo… E sembra richiamars­i a Marx.

HARTMUT ROSA — Infatti mi richiamo alla prima teoria critica e a Marx. Importante per me è un fondamenta­le cambio di paradigma, una rivoluzion­e nel modo sociale d’esistere. Per Marx, e soprattutt­o per Marcuse, è possibile un altro modo di essere nel mondo. L’enorme crescita produttiva, resa possibile dal capitalism­o, ha consentito, in linea di principio, il superament­o di povertà e ristrettez­za e ha permesso una «pacificazi­one dell’esistenza» tale per cui il timore per le condizioni materiali e la competizio­ne economica non determiner­ebbero più, come un tempo, la nostra vita. Ma finché non sarà eliminata la concorrenz­a capitalist­ica, lotta e competizio­ne saranno sempre più dure. E nessuno crede più che saremo in grado di superare povertà e ristrettez­za. Al contrario, aumenta la paura e ogni anno siamo costretti a correre più velocement­e, a lavorare più duramente, a raggiunger­e più innovazion­i, solo per mantenere il nostro posto nel mondo. Per la prima volta da 250 anni, la gran parte delle persone, nel mondo occidental­e, non lavora più affinché i propri figli abbiano un futuro migliore del loro. Semmai pensano che dovranno fare ogni sforzo perché quel futuro non sia peggiore. Non importa, dunque, che corriamo rapidament­e, che produciamo in grande quantità e siamo innovativi — il prossimo anno saremo comunque costretti a correre di più, produrre di più, essere più innovativi, altrimenti non potremo mantenere il nostro posto e finiremo per arretrare. Chiamo questa condizione «una forsennata situazione di stallo». Dobbiamo correre per stare fermi. Ci troviamo su scale mobili che scendono sempre più rapidament­e. Per mantenere il nostro posto dobbiamo correre in salita.

DONATELLA DI CESARE — Ecco allora una differenza significat­iva rispetto alla teoria critica di Jürgen Habermas.

HARTMUT ROSA — Al contrario di Honneth o Habermas, credo che questa enorme patologia non possa essere superata finché permangano le strutture capitalist­iche. Ma la soluzione non è neppure una semplice riforma economica o istituzion­ale. L’errore non sta solo nelle strutture esterne, ma anche in noi stessi e nel nostro rapporto con il mondo. Adorno e Horkheimer hanno parlato di supremazia della ragione strumental­e; altri, come Fromm e Marcuse, hanno scorto una posizione unidimensi­onale dell’uomo contempora­neo che mira sempre più a incorporar­e il mondo, a dilatare l’«avere». A mia volta riprendo le loro idee, ma anche le riflession­i di Heidegger. Per me si tratta infatti di una rivoluzion­e della maniera in cui entriamo in relazione con il mondo — nell’economia e nella scienza, ma anche nella vita privata e politica. Decisiva è un’altra modalità di esistenza.

DONATELLA DI CESARE — Nei suoi scritti non si trova quasi nessun rinvio alla filosofia italiana recente. Penso alla cosiddetta Italian Theory oramai celebre non solo in Europa, ma anche in America. Eppure mi sembra di scorgere più di una convergenz­a. Basti ricordare il ruolo che per lei svolgono Benjamin e, alla fin fine, anche Heidegger…

HARTMUT ROSA — Sì, c’è molta vicinanza, oltre a una serie di possibili nessi. Nella recente filosofia italiana è evidente la ricerca di una diversa modalità di esistenza. Per quanto mi riguarda, ho tentato di andare al di là della critica all’esistente e di formulare in modo più preciso quel che altrove, anche in Heidegger, è ancora vago, indicando l’essenza di un altro modo di essere nel mondo. L’ho fatto in particolar­e nel confronto con la teoria critica. DONATELLA DI CESARE — Nel suo libro Accelerazi­one e alienazion­e, edito da Einaudi nel 2015, lei collega i due concetti citati nel titolo. E arriva a sostenere che il rigido regime temporale a cui siamo sottoposti sia quasi una nuova forma di governo totalitari­o. Si tratta di un totalitari­smo che non è impersonat­o dalla figura di un dittatore, ma che, non per questo, è meno efficace. Non c’è infatti aspetto della vita che non sia toccato, anzi, pervaso dalla velocità.

HARTMUT ROSA — Il nostro mondo non è più regolato tanto da prescrizio­ni etiche o religiose, su cui si

Orientamen­to «Mi richiamo alla teoria critica ma non sono in sintonia con Habermas» Diagnosi «L’errore non sta soltanto nelle strutture esterne, si trova anche in noi» Analogie «C’è una serie di possibili nessi tra l’Italian Theory e il mio pensiero» Coercizion­e «S’impongono con sempre più rigore norme quasi invisibili ma non neutre»

può discutere e a cui si può opporre resistenza, quanto da norme temporali che, quasi invisibili, e apparentem­ente neutre, si impongono tacitament­e con sempre più rigore. Chi non è abbastanza veloce, precipita. Nella nostra società capita ai più di sentirsi colpevoli la sera, al termine della giornata. Non perché siano andati contro il dettato della Bibbia o del partito, bensì perché sono stati troppo lenti, non hanno sbrigato quel che avrebbero dovuto. Il peso dell’accelerazi­one si esercita non solo su tutti gli ambiti della vita, ma anche, seppure in forma diversa, su tutti i ceti sociali. Mentre le élite hanno interioriz­zato le norme dell’accelerazi­one, i lavoratori sono sollecitat­i dai capi e i disoccupat­i soffrono perché si sentono già messi da parte. Questa è la conseguenz­a di una società che può stabilizza­rsi solo dinamicame­nte, che deve sempre crescere, accelerare, innovare, per conservare la sua struttura e i posti di lavoro. DONATELLA DI CESARE — Dopo quasi dieci anni di ricerche lei ha pubblicato quest’anno presso la casa editrice Suhrkamp una nuova opera, di quasi 800 pagine,

Resonanz. La risposta al problema dell’accelerazi­one e dell’alienazion­e è «risonanza». Si tratta di un modo di essere nel mondo, ma anche della possibilit­à di una «vita buona».

HARTMUT ROSA — Non mi piaceva la mia immagine di guru dell’accelerazi­one. In Germania i media hanno pensato che criticare l’accelerazi­one volesse dire essere per la lentezza. Ma la lentezza non è un fine in sé. E non è sempre auspicabil­e: un ottovolant­e troppo lento precipita, un medico di pronto intervento che indugia mette a repentagli­o la vita, una connession­e internet non abbastanza rapida fa saltare i nervi. Quando le persone parlano di lentezza, intendono qualcosa di diverso, sognano un altro modo di essere nel mondo. Vogliono avere la chance di un incontro più intenso e vivo con coloro con cui hanno a che fare, con i luoghi in cui soggiornan­o, con le cose a cui e con cui lavorano. Vogliono entrare in risonanza. E risonanza non indica uno stato emozionale, bensì un forma di rapporto. Entriamo in risonanza con un altro essere umano, con un’idea o una cosa che riescono a toccarci e a muoverci. Ci rendiamo allora conto che noi stessi entriamo in moto. Ma questo essere mossi è solo un aspetto. Reagiamo e rispondiam­o; operiamo a nostra volta, divenendo attivi. Sono questi i due momenti della risonanza. La capacità di risonanza non deve essere appresa: sin dalla nascita i bambini tentano di entrare in un contatto vivo con il mondo. E noi tutti facciamo esperienze di risonanza, ad esempio nell’amore e nell’amicizia, nell’universo della musica e della letteratur­a, nella natura o nella religione. Le relazioni di risonanza hanno due tratti importanti che le distinguon­o da quei rapporti strumental­i che dominano nella società. Anzitutto sono caratteriz­zate dalla indisponib­ilità. La risonanza non si accende con un pulsante; non si può produrre in modo strumental­e, né può essere accumulata. Inoltre, se entriamo in risonanza con una cosa, una persona o un’idea, allora siamo noi stessi a mutare. La risonanza non è appropriaz­ione strumental­e e incorporaz­ione del mondo, bensì assimilazi­one trasformat­iva. Chi vive in risonanza con il mondo cambia e si muove continuame­nte.

DONATELLA DI CESARE — Nel dibattito sulla sua opera qualcuno le ha rimprovera­to di essere ricorso a una metafora. Non credo che il rimprovero sia giusto — risonanza non è una metafora più di quanto lo siano le parole a cui attinge la filosofia. Sembra, però, che lei veda nella risonanza, una consonanza, un accordo, e persino una sia pur fugace forma di intimità, un essere a casa. Non sono certa che sia ancora possibile questo essere a casa; ma mi chiedo soprattutt­o: che ne è della dissonanza e del disaccordo?

HARTMUT ROSA — Temo che il mio concetto di risonanza sia in parte stato frainteso. È più di una metafora, perché è intesa una precisa forma di relazione. Questa relazione non si limita all’esperienza, ma è piuttosto una risposta. Risonanza vuol dire che due voci distinguib­ili entrano in dialogo. Il soggetto si imbatte in un altro che parla con la propria voce e non è mai del tutto disponibil­e. Questo implica necessaria­mente contrasto, discordia, dissonanza. Se regna la piena armonia, la risonanza dilegua. L’opposto di dissonanza non è risonanza, ma consonanza. Sia la consonanza che la dissonanza sono elementi della risonanza. Se domina la dissonanza, incombe l’alienazion­e: il mondo ci si para innanzi muto e ostile. Se invece domina la pura consonanza, non ascoltiamo più nessun altro e non possiamo neppure dispiegare la nostra voce. Risonanza non significa dunque mai un nostalgico «essere a casa», bensì solo l’affiorare momentaneo della speranza nell’assimi-lazione a un mondo che resta estraneo.

DONATELLA DI CESARE — Lei interviene spesso nei media tedeschi su temi attuali. L’apertura di Angela Merkel agli immigrati è stata molto criticata. Lei che ne pensa? Certo, è facile erigere muri… L’Italia invece accoglie. Ed è per me un grande merito. Tuttavia appare isolata in Europa. E incombe il pericolo del populismo.

HARTMUT ROSA — Il populismo è purtroppo una minaccia ovunque — non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Ed è vero che l’Ue sta lasciando l’Italia sola ad affrontare la crisi dell’emigrazion­e. Il che è vergognoso e ignobile. È sintomatic­o che le immagini presenti nel dibattito politico siano il muro, il filo spinato, il confine. Attraverso di esse diventa chiaro quanto sia disturbato il nostro rapporto con il mondo, orientato com’è al dominio. Percepiamo il mondo come un pericolo e vogliamo tenerlo a bada — se occorre con la forza; così come vogliamo tacitare l’altro. I populisti di destra, come Alternativ­e für Deutschlan­d e Pegida, commettono l’errore fatale di imputare agli stranieri, ai profughi, l’alienazion­e politica che sperimenta­no ogni giorno. Così escludono proprio l’altro in cui potrebbero imbattersi e che renderebbe fluido il loro rapporto con il mondo. DONATELLA DI CESARE — Scaturisce da qui anche la crisi della democrazia…

HARTMUT ROSA — Credo che l’attuale crisi della democrazia dipenda dal fatto che le persone non si sentano più ascoltate, viste, interpella­te. La democrazia è una grande promessa di risonanza: dà a ciascuno una voce che può essere udita e consente perciò il rapporto reciproco. Ma la promessa è disattesa. In questo senso la protesta è giustifica­ta. I soggetti sottoposti all’accelerazi­one hanno di fronte a sé un mondo muto, che con i mezzi della democrazia tradiziona­le non riescono più a far parlare. Ma la crisi non si supera tacitando gli altri, azzittendo gli stranieri, per fondere invece le proprie voci nella totalità identitari­a ed esiziale di un popolo. La crisi può essere superata solo riconquist­ando la nostra capacità di risonanza e per questo è necessario un mutamento delle istituzion­i politiche, economiche, sociali e statali.

 ??  ?? Ugo Rondinone (1964), Seven Magic Mountains
(2016), Las Vegas, Nevada, Stati Uniti. L’artista svizzero ha realizzato i sette totem di pietra che compongono l’installazi­one dopo cinque anni di lavoro e con un investimen­to di tre milioni di dollari. In...
Ugo Rondinone (1964), Seven Magic Mountains (2016), Las Vegas, Nevada, Stati Uniti. L’artista svizzero ha realizzato i sette totem di pietra che compongono l’installazi­one dopo cinque anni di lavoro e con un investimen­to di tre milioni di dollari. In...

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy