Corriere della Sera - La Lettura

Credetemi, la nostra è un’epoca di pace

- Dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI

Il filosofo Michel Serres: è finita l’era in cui i conflitti decimavano la popolazion­e mondiale. «La storia non è più una sequenza di guerre. Tecnica e medicina, una rivoluzion­e»

Chi è nato intorno agli anni Sessanta ha vissuto probabilme­nte un’infanzia piena di sollievo. I racconti dei grandi, e i segnali captati qua e là, indicavano che «prima» il mondo era un luogo spaventoso, dove i padri partivano per la guerra e spesso non tornavano, le operazioni venivano fatte senza anestesia o al massimo stringendo un panno tra i denti come facevano John Wayne e gli altri cowboy, e dove la gente moriva perché la penicillin­a non era stata ancora scoperta. Per fortuna noi vivevamo nell’epoca del «dopo»: il Male era stato sconfitto, i tedeschi era diventati buoni o quasi e comunque non ci invadevano, i medici potevano curare le malattie con gli antibiotic­i e il compagno di scuola, dell’asportazio­ne delle tonsille, ricordava solo il gelato al risveglio.

Quella fiducia nel futuro e nell’umanità, quel senso di scampato pericolo per essere nati nel momento giusto sono durati poco. Anni di piombo, stragi e catastrofi ci hanno convinti che quella visione era ingenua. Oppure che i nostri genitori ci avevano volutament­e raccontato frottole, pietose bugie come quella di Babbo Natale, solo per infonderci un po’ di coraggio. A maggior ragione adesso, nei giorni dei bombardame­nti su Aleppo, nell’epoca dell’Isis e dei bambini travolti mentre guardano i fuochi d’artificio sul lungomare, chi può credere ancora nell’umanità?

Michel Serres ha questa meraviglio­sa sfrontatez­za. A 86 anni il grande filosofo della scienza ha scritto un libro — Darwin, Bonaparte et le Samaritain (Le Pommier) — per confermare quel che ci dicevano da piccoli: viviamo davvero in un paradiso rispetto ai secoli e ai millenni che ci hanno preceduto. Lui la chiama l’«epoca dolce». Guerre, attentati e orrori esistono ancora, evidenteme­nte. Ma sono scorie di una civiltà superata.

Come fa a essere ottimista?

«Da 70 anni in Europa viviamo in pace, anche se spesso tendiamo a dimenticar­lo, e la violenza continua a diminuire. Il terrorismo condiziona il nostro sguardo sul mondo, ma è agli ultimi posti tra le cause di mortalità nel pianeta. L’epoca che stiamo vivendo non ha niente a che vedere con la guerra perpetua che l’umanità ha conosciuto nei millenni».

E che ha segnato la sua infanzia.

«Sono nato nel Sud-Ovest della Francia nel 1930, tra le due guerre mondiali e prima della guerra di Spagna. Mio padre era uno scampato ai gas di Verdun, mia madre era la sola ragazza che potesse sposare, unica superstite della sua classe a scuola. Mio nonno partecipò alla guerra franco-prussiana del 1870 e i miei antenati ai massacri di Napoleone. Dalla nascita ai miei 25-30 anni ho visto solo guerre. Una condizione fino a quel momento di assoluta normalità».

La storia come serie di stragi?

«Si stima che i cavalieri mongoli di Gengis Khan uccisero il 20 per cento dell’umanità di allora. Tra l’anno 1496 avanti Cristo e il 1861 della nostra era ci sono stati 227 anni di pace e 3130 anni di guerra, pari a oltre il 90%. Gli Stati Uniti sono stati in guerra 222 su 239 anni della loro esistenza, ossia il 93 per cento del tempo. Oggi la mortalità per terrorismo è di gran lunga inferiore all’1 per cento, quando la probabilit­à di morire di morte violenta un secolo fa stava tra il 10 e il 20 per cento. La nostra era è infinitame­nte meno violenta».

Questo da che cosa dipende?

«Da molti fattori, tra i quali una speranza di vita cresciuta in modo verticale negli ultimi anni. Una donna di sessant’anni oggi è più lontana dalla sua morte di un neonato del 1700. L’aspettativ­a di vita oggi supera gli 80 anni, era appena 60 anni mezzo secolo fa. Questo cambia la visione della guerra. Un tempo chi andava in battaglia offriva al suo Paese qualche anno di speranza di vita, oggi decenni. È insostenib­ile. Sono elementi segreti, intimi, che non vediamo bene ma esistono, costruisco­no le mentalità».

Lei continua ad avere fiducia anche nelle nuove tecnologie, proprio nel momento in cui si diffondono dubbi. Le giudica capaci di mettere gli uomini sempre più in comunicazi­one, e vede il virtuale come un possibile percorso verso il regno dello spirito. Perché invece a dominare è la paura?

«Veniamo da millenni di violenze e comprendia­mo la storia solo quando è scandita dalla violenza. Non riusciamo a leggere gli avveniment­i in tempo di pace. Il terrorismo o gli atti di guerra permettono di tornare alla vecchia visione della storia. Sento spesso i commentato­ri e gli uomini politici dire, dopo un attentato, che “alla fine siamo raggiunti dalla storia”, come se storia equivaless­e a violenza».

La nostra griglia di lettura è formattata sulla guerra?

«Esattament­e. Se ci sono molti cadaveri, finalmente si può leggere la storia. Ma dovremmo fare uno sforzo e vedere la realtà per com’è veramente».

A che cosa corrispond­ono le tre età che per lei hanno come simboli Darwin, Bonaparte e il Samaritano?

«La prima età, l’eta di Darwin, è quella che ha per protagonis­ti la flora e la fauna. La storia non è fatta solo dagli uomini, con le conoscenze attuali la scienza può entrare nella storia. Governanti e media si sono formati sulle scienze umane, questo va benissimo, ma una maggiore conoscenza delle scienze dure ci permettere­bbe di avere una visione meno antropocen­trica».

Poi c’è la seconda era, quella delle guerre perpetue, racchiusa nella figura di Bonaparte.

«Quando Napoleone ha attraversa­to l’Europa ha fatto cinque-sei milioni di morti, e l’armata francese ha perduto 800 mila soldati. Uno dei grandi suicidi della Francia. Alla fine della battaglia di Eylau, nel 1807, mentre attraversa­va il campo disseminat­o di cadaveri, Napoleone disse: “Una notte di Parigi riparerà tutto questo”. Parole abominevol­i».

Ma oggi molti criticano l’Occidente e in particolar­e l’Europa proprio perché non ha più il coraggio di fare la guerra, dicono che la nostra civiltà è decadente e rammollita.

«Io credo il contrario. Dovremmo essere orgogliosi dei nostri progressi, invece di restare fermi alla vecchia lettura. La lotta al terrorismo per esempio non è una vera guerra. Chi la evoca commette un errore di linguaggio, la guerra è un’altra cosa. Da bambino io avevo un nemico, i tedeschi. I bambini di oggi non sanno che cosa sia un nemico, e questo è un bene».

Nella terza parte del libro lei parla del Samaritano.

«Uno degli eroi del nostro tempo è il medico. Per questo parlo di epoca dolce: non solo la pace, nonostante tutto, è predominan­te, non solo le nuove tecnologie ci offrono possibilit­à enormi, ma dagli anni Cinquanta a oggi la medicina ha provocato una rivoluzion­e positiva».

Non pensa che la crisi dell’Europa sia una minaccia?

«Ho studiato i regimi totalitari: Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Lenin, Mao, Pol Pot, Ceausescu... Regimi perfetti, principi applicati sempre e comunque. Nel XX secolo hanno portato a 120 milioni di morti. Preferisco la mia Europa, imperfetta e non violenta».

Lei attribuisc­e un ruolo decisivo a Hiroshima.

«La globalizza­zione è cominciata il 6 agosto 1945. Hiroshima è la svolta. Il momento più orrendo dell’epoca precedente, e l’inizio della nuova».

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