Corriere della Sera - La Lettura
«Il futuro è l’Ucraina in Europa » Adam Michnik:
la memoria si può conciliare superando i confini Dico no a una visione etnica e confessionale dell’identità polacca
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L’incontro de «la Lettura» con Adam Michnik avviene in piazza Saffi a Forlì, dove il direttore del giornale polacco «Gazeta Wyborcza», ex dissidente incarcerato sotto il comunismo, ha partecipato al festival 900fest, dedicato al tema della colpa nella storia. Con lui rievochiamo innanzitutto le vicende del 1956, che videro la Polonia allentare la morsa del controllo sovietico, a partire dalla rivolta operaia di Poznan repressa nel sangue, con l’avvento al potere del comunista nazionalista Władisław Gomułka, incarcerato in epoca staliniana e sgradito al Cremlino, mentre la contemporanea rivoluzione ungherese veniva soffocata dai carri armati dell’Armata rossa.
Ricorre ora il sessantesimo anniversario dell’ottobre polacco, di quel «formidabile» 1956 di cui sembra quasi essersi perso il ricordo.
«Non so altrove, ma oggi nella memoria collettiva della Polonia il 1956 è stato pressoché eliminato, perché in quella occasione gli eroi sono stati dei “comunisti buoni”. Per me nel 1956 ci sono stati due grandi protagonisti positivi: il primo ovviamente è il leader del partito Gomułka, il secondo è il filosofo Leszek Kołakowski. Certamente il mio punto di vista è un po’ una semplificazione estrema, perché nel 1956 c’è anche un evento decisivo per il nostro Paese cattolico: il cardinale Stefan Wyszynski, appena liberato dalla prigionia, nella sostanza chiese alla gente di sostenere Gomułka. Un altro elemento estremamente importante era stato la rivolta degli operai a Poznan in giugno, che aveva cambiato completamente la mentalità dentro il partito comunista, anche se la ribellione non generò alcun leader e alcuna idea. E questa è la differenza fondamentale tra Poznan 1956 e Danzica 1980. Perché Danzica produsse, invece, Solidarnosc e Lech Wałesa».
Ma i governanti attuali come vedono quegli eventi?
«Oggi il 1956, nella narrazione del PiS (Diritto e Giustizia, il partito al potere) è rappresentato come una furba manovra dei comunisti per salvare il partito e il regime. Ovviamente è un’idiozia, perché fu il momento in cui in Polonia finì lo stalinismo. Dopo vivevamo ancora sotto un regime totalitario, ma di un totalitarismo a cui erano stati tolti i denti. E quindi il cambiamento del 1956 è stato il più importante prima del 1980».
Quali sono state, dopo la fine del regime nel 1989, le tappe attraverso cui è passata la memoria polacca?
«La coscienza collettiva dopo il 1989 ha avuto due fasi. La prima è stata l’idea che si fosse trattato del più grande successo polacco del XX secolo: il comunismo era stato smontato senza le barricate, senza fucilazioni e patiboli. Ma poi si sono riprodotte le differenze tradizionali sulla storia e su come ripensarla. Da una parte si voleva il ritorno alla tradizione polacca distrutta dal comunismo, mentre altri dicevano di no, sostenevano che bisognava andare verso l’Europa. Quando si vuole tornare alla tradizione, bisogna chiedersi a quale eredità ci si riferisce. Per alcuni è quella indipendentista e democratica, per altri è la tradizione dello Stato cattolico della nazione polacca. Così è sorto un conflitto di principio, perché la seconda visione è naturalmente esclusivista. Essa infatti esclude i cittadini non appartenenti all’etnia polacca e alla religio-