Corriere della Sera - La Lettura
La malattia è mia amica, sorridete please
Un filosofo del linguaggio colpito dal Parkinson racconta la sua convivenza con quello che chiama «Mr Parky». Ne esce un romanzo inaspettatamente leggero ma capace di affrontare questioni cruciali
«Siamo qui, noi due, a cazzeggiare sui massimi sistemi». Chi pronuncia la battuta è un serissimo studioso di semantica formale — argomenti e terminologia da iniziati, nessun accesso facilitato per i profani. Chi la ascolta è la sua malattia, facilmente inferibile dal soprannome che il protagonista le ha affibbiato, Mr Parky, più noto come Parkinson, che di filosofia ne mastica anche lui dato che da tempo perlustra le circonvoluzioni cerebrali del suo ospite.
Il romanzo — nella realtà queste cose non succedono, e che io sappia nemmeno nella semantica formale — si intitola Io e Mr Parky, e il suo autore è Andrea Bonomi, uno dei nostri massimi filosofi del linguaggio, che ha prestato al protagonista molti tratti autobiografici. Un romanzo mirabilmente lieve e scanzonato nonostante l’argomento (o forse invece, come vedremo, proprio per questo).
Bonomi non concede al suo narratore nemmeno un momento di autocommiserazione. Invece di indulgere su paure e menomazioni, il professore passa in rassegna le strategie di contrasto che ha deciso di mettere in atto, più incentrate sul darsi da fare — ciclismo, ginnastica, tenere la mente in esercizio — che sulla terapia farmacologica, che Bonomi paragona a una bugia dalle gambe corte, uno stratagemma per far credere ai neuroni rimasti integri che di dopamina ce n’è in abbondanza e tutto continua come prima. Anche le alterazioni del comportamento tipiche della malattia, nel suo caso per fortuna non gravi, se l’allentamento dei freni inibitori non lo porta che a qualche abbuffata notturna e allo shopping compulsivo (che se ne farà delle 11 paia di scarpe della stessa marca che ora tiene sotto il letto? E di tutti quegli aggeggi elettronici?), sono oggetto di riflessioni acute e divertite. Quando le cose cambiano c’è sempre qualcosa da imparare.
Ma soprattutto, e questo non è frutto di nessuna strategia consapevole, il protagonista inizia a vedere i suoi simili in una luce nuova, come compagni di sventura ma anche di avventura. A commuoverlo non sono la sofferenza e lo spavento, ma la dignità che riescono a mettere in campo, a partire dallo sconosciuto che ha incontrato in sala d’aspetto prima dell’esame e che il giorno del ritiro del referto gli sussurra un imbarazzato «speriamo bene»: speriamo bene per noi, per tutti e due, non solo per me; e lo stesso avviene con i membri del club dei «tremolini» o con altri malati, che ascolta con attenzione come se avessero tutti qualcosa di straordinario da dirgli. Alcuni sono già morti, il lieto fine è escluso in ogni caso. Ma la vita, la vita comune, la vita che d’abitudine ignoriamo, è molto più ricca di potenzialità se la si guarda dal punto di vista della finitezza. Tutto è prezioso, nulla è troppo piccolo, come sapeva il Raymond Carver prediletto dall’autore, e prima di lui il suo maestro Cechov. Solo il dolore reale è garanzia che sia reale anche la gioia.
Io e Mr Parky è però tutt’altro che una storia edificante. A vegliare che non si scada in una facile consolazione c’è il prezzo enorme che si paga per questa scoperta. Mr Parky è simpatico ma il Parkinson non è una bella cosa. Bonomi respinge la tentazione di ritenersi fortunato; non condi- vido, dice a Mr Parky, «questa idea che la malattia possa essere una opportunità per r i di s e gnare i propri rapporti con la vitaci rcostante e, soprattutto, con gli altri. Preferirei arrivarci da solo, senza la tua sollecitazione». Nessuna provvidenza, nessuna teodicea, se Dio c’è ci deve parecchie spiegazioni.
Eppure, ribatte Mr Parky, i cambiamenti ci sono stati, non ultimo il libro che stai scrivendo. Quando mai se no avresti messo mano a un romanzo? Perché non facciamo un compromesso, non mi accetti, non mi rendi pubblico invece di far finta di tamburellare fischiettando con quelle dita che sono io a farti tremare? Non ti chiedo di essermi grato ma chi se non io ti ha dato la possibilità di discutere allegramente, gioiosamente perfino, sui massimi sistemi, l’irreversibilità del tempo, la mente e il corpo, il determinismo e la libertà? E alla dignità degli altri davvero ci saresti arrivato da solo? Quante volte in vita tua hai potuto a buon diritto dire «noi»?
Nell’ultima parte del romanzo, tutta occupata da un dialogo col suo ospite indesiderato, Bonomi reindossa i panni del filosofo e su molte questioni cruciali offre spunti illuminanti anche per il profano che purtroppo non è possibile riassumere qui. Ma che di questi spunti riconosca almeno metà del merito a Mr Parky non è mera ostentazione di fair play: per le idee ma soprattutto per il tono con cui sono espresse. Se Mr Parky lo invita a non tirarsela troppo non è solo perché gli ha fatto letteralmente toccare con mano quanto siano radicati nella carne i massimi sistemi, ma anche perché possiede lui stesso un notevole tratto di modestia, in primo luogo nell’accettare un nomignolo come quello, quando sarebbe ben altro il vero nome da attribuirgli: «Cerca di vedermi per quello che sono: uno dei tanti volti che, per voi umani, può assumere il fattore Tempo».
Attitudine L’autore non concede al suo narratore nemmeno un momento di autocommiserazione ma riflessioni acute e divertite Approccio Invece di indulgere su paure e menomazioni, il professore passa in rassegna le strategie di contrasto che ha deciso di mettere in atto