Corriere della Sera - La Lettura

Il tonfo nel nulla dell’uomo e del sasso

Psichiatra e psicoanali­sta, Filippo Strumia nella nuova raccolta evoca un materialis­mo naturalist­ico (leopardian­o o scientific­o, chi lo sa...) che si interroga sul destino della specie più che dell’individuo

- di ROBERTO GALAVERNI

La poesia di Filippo Strumia provoca a tutta prima una specie d’inganno ottico. Come già accaduto 5 anni fa con la sua prima raccolta di versi, Pozzangher­e, anche il nuovo Marciapied­e con vista (Einaudi), rimanda infatti a un contesto cittadino ordinario e minimalist­a che l’interrogaz­ione del discorso poetico — che è invece di natura filosofica e assoluta — di per sé sembra smentire o per lo meno contrastar­e. C’è il «marciapied­e», dunque, e c’è la «vista», anche se per la definizion­e di queste poesie a contare di più sarà ovviamente la risultante del loro rapporto.

Anche solo a guardare i titoli delle sezioni ci si aspettereb­be lo stesso accostamen­to tra la chiusura dell’orizzonte cittadino e una dizione più o meno atonale o prosastica a cui si è affidata non poca parte della nostra poesia degli ultimi decenni: Cartacce, Gatti, Lampioni, Mendicanti, Passanti, Panchine, Tombini. E invece: «Sprofonda nelle piccole cose/ e sopravvivi con me, prendi un pugno/ di lucciole e apri in palmo la galassia»; o ancora: «E congiungi gli equinozi/ in quattro passi fra le case/ fino al bar». Si direbbe che qui la vista conti più del marciapied­e; o che almeno le prospettiv­e celesti ma anche, come tante volte accade, le meccaniche atomiche o molecolari, siano decisive per comprender­e natura e destino di chi sul marciapied­e sta camminando. Di fatto, poi, l’espression­e poetica riesce singolarme­nte metaforica. Può forse venire in mente Milo De Angelis, ma anche questo potrebbe essere un abbaglio viste sia la formazione profession­ale di Strumia (che esercita come psichiatra e psicoanali­sta) sia il suo percorso letterario piuttosto irregolare e appartato.

Non diversamen­te l’oggetto dell’attenzione — la città coi suoi abitatori, appunto — non risulta mai fine a se stesso, conclusivo. Anzi, per certi versi non sembra essere che il pretesto o perfino la cavia di un’indagine non particolar­e ma struttural­e, volta cioè, come spesso viene ripetuto, alla comprensio­ne o al ritrovamen­to del «senso», del «punto archimedeo». E infatti: «Non è più degli uomini/ l’onore del senso». Prima dell’individuo Strumia ha in mente la specie, più che al qui e ora guarda alla provenienz­a e alla destinazio­ne dell’uomo. E quando osserva se stesso — non è solo un vizio profession­ale — lo fa anzitutto traguardan­do nella propria immagine le figure della madre e ancor più del padre («Scrivo solo per ave- re te», confessa in Padre). In questo modo si costruisce come un’archeologi­a o, viceversa, un oroscopo delle figure che cadono sotto gli occhi della voce che interpreta e argomenta. L’«adesso» appare come un privilegio che spetta soltanto alle cose, agli animali, alla materia. L’«osso», il «sasso», la «terra», tornano di continuo come sinonimi di annichilim­ento e perfezione, come un punto di riferiment­o se non d’arrivo per l’uomo.

Alla base di questi versi sembra esserci allora una specie di materialis­mo naturalist­ico affatto disincanta­to (di matrice leopardian­a, scientific­a, filosofica, chi può dirlo?). Il loro orizzonte ultimo, infatti, sembra essere quello di un presente liberato dalle illusioni e convenzion­i cosiddette civili o culturali, a un passo dallo scetticism­o e dal «tonfo nel nulla», almeno per quanto riguarda la sorte degli uomini «capitati senza invito» nella vita. Specie nei componimen­ti epigrammat­ici giocati sui versi brevi e la rima, si avverte chiarament­e, non a caso, l’influenza dell’ultimo Caproni: «Sedere nell’inedia/ d’un bar mal arredato,/ scordare la commedia,/ non essere mai stato».

Una segnaletic­a e riferiment­i minimi, dunque, per una poesia apparentem­ente minimalist­a e invece il più delle volte assertiva e tendenzial­mente sapienzial­e. Basti pensare agli insegnamen­ti, alle esortazion­i, agli imperativi, ai tanti «non trascurare», «resta», «guarda bene», «non pensare», «lascia», «non credere», «non curatevi»... Questa specie di strana equivocità riguarda del resto l’intero assetto della poesia di Strumia, che combina elementi tematici e ragioni stilistich­e di provenienz­a anche molto diversa. Scandisce ad esempio con regolarità quasi didattica verso e discorso, ma poi è decisament­e metaforica. Anche troppo, va detto, perché a volte la metafora cade un po’ facile finendo per far torto a una meditazion­e e a un pensiero che di facile non hanno nulla. Ma è pur vero che in queste stesse contraddiz­ioni e instabilit­à, che il suo orecchio non sempre riesce del tutto a governare, Strumia ha trovato comunque il suo modo, il suo punto di risoluzion­e: «A quest’uomo cade il nome,/ cede il passo al marciapied­e./ Ora esiste».

 ?? C.d.S. ?? I versi sono tratti dal volume Marciapied­e con vista, di Filippo Strumia (Roma, 1962) pubblicato da Einaudi
C.d.S. I versi sono tratti dal volume Marciapied­e con vista, di Filippo Strumia (Roma, 1962) pubblicato da Einaudi

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