Corriere della Sera - La Lettura
Il tonfo nel nulla dell’uomo e del sasso
Psichiatra e psicoanalista, Filippo Strumia nella nuova raccolta evoca un materialismo naturalistico (leopardiano o scientifico, chi lo sa...) che si interroga sul destino della specie più che dell’individuo
La poesia di Filippo Strumia provoca a tutta prima una specie d’inganno ottico. Come già accaduto 5 anni fa con la sua prima raccolta di versi, Pozzanghere, anche il nuovo Marciapiede con vista (Einaudi), rimanda infatti a un contesto cittadino ordinario e minimalista che l’interrogazione del discorso poetico — che è invece di natura filosofica e assoluta — di per sé sembra smentire o per lo meno contrastare. C’è il «marciapiede», dunque, e c’è la «vista», anche se per la definizione di queste poesie a contare di più sarà ovviamente la risultante del loro rapporto.
Anche solo a guardare i titoli delle sezioni ci si aspetterebbe lo stesso accostamento tra la chiusura dell’orizzonte cittadino e una dizione più o meno atonale o prosastica a cui si è affidata non poca parte della nostra poesia degli ultimi decenni: Cartacce, Gatti, Lampioni, Mendicanti, Passanti, Panchine, Tombini. E invece: «Sprofonda nelle piccole cose/ e sopravvivi con me, prendi un pugno/ di lucciole e apri in palmo la galassia»; o ancora: «E congiungi gli equinozi/ in quattro passi fra le case/ fino al bar». Si direbbe che qui la vista conti più del marciapiede; o che almeno le prospettive celesti ma anche, come tante volte accade, le meccaniche atomiche o molecolari, siano decisive per comprendere natura e destino di chi sul marciapiede sta camminando. Di fatto, poi, l’espressione poetica riesce singolarmente metaforica. Può forse venire in mente Milo De Angelis, ma anche questo potrebbe essere un abbaglio viste sia la formazione professionale di Strumia (che esercita come psichiatra e psicoanalista) sia il suo percorso letterario piuttosto irregolare e appartato.
Non diversamente l’oggetto dell’attenzione — la città coi suoi abitatori, appunto — non risulta mai fine a se stesso, conclusivo. Anzi, per certi versi non sembra essere che il pretesto o perfino la cavia di un’indagine non particolare ma strutturale, volta cioè, come spesso viene ripetuto, alla comprensione o al ritrovamento del «senso», del «punto archimedeo». E infatti: «Non è più degli uomini/ l’onore del senso». Prima dell’individuo Strumia ha in mente la specie, più che al qui e ora guarda alla provenienza e alla destinazione dell’uomo. E quando osserva se stesso — non è solo un vizio professionale — lo fa anzitutto traguardando nella propria immagine le figure della madre e ancor più del padre («Scrivo solo per ave- re te», confessa in Padre). In questo modo si costruisce come un’archeologia o, viceversa, un oroscopo delle figure che cadono sotto gli occhi della voce che interpreta e argomenta. L’«adesso» appare come un privilegio che spetta soltanto alle cose, agli animali, alla materia. L’«osso», il «sasso», la «terra», tornano di continuo come sinonimi di annichilimento e perfezione, come un punto di riferimento se non d’arrivo per l’uomo.
Alla base di questi versi sembra esserci allora una specie di materialismo naturalistico affatto disincantato (di matrice leopardiana, scientifica, filosofica, chi può dirlo?). Il loro orizzonte ultimo, infatti, sembra essere quello di un presente liberato dalle illusioni e convenzioni cosiddette civili o culturali, a un passo dallo scetticismo e dal «tonfo nel nulla», almeno per quanto riguarda la sorte degli uomini «capitati senza invito» nella vita. Specie nei componimenti epigrammatici giocati sui versi brevi e la rima, si avverte chiaramente, non a caso, l’influenza dell’ultimo Caproni: «Sedere nell’inedia/ d’un bar mal arredato,/ scordare la commedia,/ non essere mai stato».
Una segnaletica e riferimenti minimi, dunque, per una poesia apparentemente minimalista e invece il più delle volte assertiva e tendenzialmente sapienziale. Basti pensare agli insegnamenti, alle esortazioni, agli imperativi, ai tanti «non trascurare», «resta», «guarda bene», «non pensare», «lascia», «non credere», «non curatevi»... Questa specie di strana equivocità riguarda del resto l’intero assetto della poesia di Strumia, che combina elementi tematici e ragioni stilistiche di provenienza anche molto diversa. Scandisce ad esempio con regolarità quasi didattica verso e discorso, ma poi è decisamente metaforica. Anche troppo, va detto, perché a volte la metafora cade un po’ facile finendo per far torto a una meditazione e a un pensiero che di facile non hanno nulla. Ma è pur vero che in queste stesse contraddizioni e instabilità, che il suo orecchio non sempre riesce del tutto a governare, Strumia ha trovato comunque il suo modo, il suo punto di risoluzione: «A quest’uomo cade il nome,/ cede il passo al marciapiede./ Ora esiste».