Corriere della Sera - La Lettura
Un, due, tre: le arti di Hopper
Un americano a Parigi. «Quasi troppo formale e gradevole dopo il caos selvaggio di New York. Tutto sembra essere stato progettato allo scopo di formare un insieme armonioso»: è così che il giovane Edward Hopper descrive la capitale francese, dove trascorre lunghi periodi tra il 1906 e il 1910. La retrospettiva sul pittore statunitense allestita al Complesso del Vittoriano di Roma (fino al 12 febbraio) affianca alle opere più note, dalle quali affiorano tratti e stereotipi del mito yankee, tele e disegni realizzati nella città che, a inizi Novecento, è the place to be: rito di passaggio per artisti e intellettuali.
Alto un metro e novanta, tanto imponente quanto schivo, il giovane Hopper arriva a Parigi nel 1906: l’anno della morte di Paul Cézanne che segna la fine del postimpressionismo, mentre al Salon d’Automne debuttano i Fauves e Picasso inizia a dipingere «l’esorcismo» delle Demoiselles d’Avignon. E però, il 24enne di Nyack, cittadina dello Stato di New York, si appassiona poco alle avanguardie. Frequenta i caffè, respira la bohème, ma non stringe legami di amicizia né sodalizi creativi. «Chi incontrai? Nessuno — ricorderà della sua esperienza europea — . Mi sedevo e stavo a guar- dare». Più della vita moderna, della «folla gaudente a cui non importa cosa fare o dove andare, pur di divertirsi», lo incuriosisce la luce: «Diversa da tutto quello che avevo visto prima». È a Parigi che scopre il plein air: vedute di palazzi, ponti, gli argini della Senna. E affina la tecnica: non la scomposizione del colore steso di piatto o in punta di pennello, ma campiture ampie e volumetriche. Come se, più della compenetrazione spazio-luce, gli importi dare sostanza alle cose: fino al punto in cui, qualche decennio più tardi, diverranno quasi stranianti nella loro presenza totemica e solitaria. Dalla realtà alla visione e ritorno. «Credo di essere ancora impressionista — confessa in un’intervista del 1962 — , forse nella semplificazione: per me l’impressionismo era l’impressione immediata. Ma mi interessa di più la terza dimensione, ovvio. Anche ad alcuni impressionisti...».
Tra gli artisti tenuti a battesimo nel 1864 dal Salon des Refusés è Edgar Degas il suo preferito. Colpisce, nella mostra romana, l’assonanza tra alcuni quadri di Hopper e la cifra stilistica del francese. Prendiamo Summer Interior (1909): la donna seminuda sdraiata sul pavimento, con la schiena appoggiata al bordo del letto, ricorda le scene di intimità femminile, bagni e toilette, del pittore di bal- lerine. Ancora più evidenti, le analogie, in New
York Interior (1921 circa): la figura di spalle, avvolta in un bustier azzurrino, è vicinissima all’osservatore. Pare quasi di sfiorarla.
I tagli obliqui di Degas incontrano l’interesse di Hopper anche per la familiarità con un altro linguaggio: quello del cinema. Dai tavoli sghembi de
L’assenzio alle fughe prospettiche di New York movie o Nighthawks, ovvero: come trasformare il coinvolgimento emotivo in suspense. Lo sguardo acquattato, da spia o voyeur, non a caso fa di Hopper un artista filmico. Citato da numerosi registi: da La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock a Pro
fondo rosso di Dario Argento, fino a L’amico americano di Wim Wenders e Shirley: visions of reality, tredici dipinti di Hopper che si «animano» in un fim dell’austriaco Gustave Deutsch. Le atmosfere noir, i cottage isolati in the middle
of nowhere, gli interni tutti spigoli e scale che si interrompono nel primissimo piano, quasi un fermo immagine, per sconfinare nella psiche: stratagemmi narrativi dai quali prendono vita i personaggi: «Uomini misteriosi con il cappello, donne sensuali e provocatrici che ne abitano le notti — scrive nel catalogo Luca Beatrice, curatore del progetto con Barbara Haskell del Whitney Museum di New York, dal quale provengono le 60 opere esposte —; l’investigatore privato creato dalla penna di Raymond Chandler...».
Dal cinema alla fotografia, la poetica dell’artista americano si riflette anche nei lavori di Luca Campigotto, Gregory Crewdson e Richard Tuschman che, nella collettiva Hopperiana ospitata dalla galleria Photology di Noto (fino al 2 novembre), reinterpretano le sue atmosfere metafisiche: tra realismo e psicoanalisi. Nella serie Gotham City Campigotto unisce alla propria sensibilità per le scene notturne le inquadrature urbane tipiche di Hopper. Le ambientazioni di Crewdson innescano, invece, cortocircuiti misteriosi e inquietanti. Mentre la vena pittorica di Tuschman proietta i personaggi dell’autore statunitense nella contemporaneità.
La cronaca sociale di Hopper trova infine spazio nella mostra America after the Fall: Paintings in
the1930s,ch esi inaugura nel 2017 allaRoya lA cademy di Londra( dal 25 febbraio al 4 giugno ). Il taglio« generazionale» ripercorre le profonde trasform azioni—urbanistiche, industriali, demografiche—degli Stati U nitido pola grande depressione del 1929: realismo, populismo e astrazione.