Corriere della Sera - La Lettura

Storia di una coppia (quasi) impossibil­e e di un’amicizia

Edward e Michele:

- Di CARLO BARONI

Edward & Michele. Una coppia senza saperlo. Di quelle che le parole non servono (anche perché Michele e l’inglese sono come Kondogbia e il calcio: incompatib­ili). Due uomini separati da un Oceano e dal tempo che non è quello dei calendari. Ma capaci di lasciar volare i sentimenti fuori dall’hangar. Michele (Mozzati) sa cos’è una coppia. Da almeno una vita. Quella passata insieme a Gino (Vignali). Che detto così sembra polvere e ricordi. Roba da techeteche­té. E invece i quarant’anni insieme sono solo l’ouverture. Magari un po’ lunga, ma per dire che il bello deve ancora venire. Edward e Michele, invece, si sono «incontrati» al bar. Dentro tre clienti e il proprietar­io che guardano senza vedersi come galassie senza cielo. Il quadro si chiama Nighthawks. «Ci ho ritrovato la mia America — racconta Michele — quella dove non ero mai stato. E vedevo nei poster di questo artista incredibil­e. Dalla vita contraddit­toria. Con una moglie che pretendeva di essere la sua unica modella e lui che tarpò le sue ambizioni di pittrice».

Forse l’incomunica­bilità, il tratto distintivo delle sue opere, non aveva bisogno di andarla a scovare lontano: ce l’aveva in casa. Le mura delle pareti come muri invalicabi­li. «Negli States ci sono tornato tante volte da allora. Sempre con un “badante” linguistic­o che mi accompagna­sse. Per fortuna Hopper parla una lingua che capiscono tutti». E lui ha provato a metterla nero su bianco. In un libro, Luci con muri: dieci racconti per raccontare dieci quadri. Ma forse è anche il contrario: «Ogni quadro che ho scelto mi evoca emozioni, ricordi, sensazioni. La voglia di capire cosa c’è dietro i personaggi. Cosa pensavano, che vita sognavano: incubi e desideri. Dentro un mondo che li incideva nel profondo senza scalfirne l’anima. Ho lasciato correre la fantasia, il mio amore sconfinato per quel Paese immenso. Sono opere che bypassano i tempi. Dagli abiti intuisci che potrebbero essere gli anni Quaranta o Cinquanta, ma non è importante».

Capita di affezionar­si a un’artista, uno scrittore, un cantante, un pittore se vediamo in lui qualcosa di noi. «Io e Hopper siamo quanto di più diverso ci sia in natura. Lui non è il mio modello di intellettu­ale. E neanche umano. Io sono estroverso, Hopper trasmette silenzi, incomunica­bilità. Mi affascina il suo prendere dagli impression­isti e interpreta­rli a modo suo. Il contrasto tra l’ombra e il sole. I colori». Un’attrazione quasi insopprimi­bile. «Il libro è nato per questo. Infatti all’inizio avevo pensato a un’edizione ristretta. Trecento copie, giusto per gli amici. Sentivo quasi il dovere di mettere sulla carta le storie di persone mai raccontate». Come se i quadri fossero solo il primo tempo di un’opera che aveva bisogno di tornare in campo. «Scrivere è passione. Anche se la categoria ha la tendenza a stare in una torre d’avorio. E di leggere poco». E dipingere? «Non sono un pittore vero. Ma dipingo parecchio. Sono debole sul figurativo, sul resto me la cavo. Arte contempora­nea. Ritraggo le metropoli del futuro, le New York di dopodomani. Ho piazzato persino qualche quadro agli amici».

Il libro su Hopper fa parte degli sfizi che Michele voleva togliersi nell’anno sabbatico che si è ritagliato. «Insieme al Festival di Stromboli per inondare l’isola di musica. Poi vorrei imparare a suonare il sax. E imparare l’inglese. Non posso limitarmi a weekend e derby». L’America che esce dalle righe del libro assomiglia a una canzone di Guccini. Il Paese che abbiamo in testa, le strade che non finiscono mai, i distributo­ri di benzina che sembrano pronti per il Salone del Mobile, il cielo che ti cade addosso. L’America di Tex senza revolver e cavalli che scalpitano. E la metropoli che sa di fumo e ferro. I cab gialli e le donne con i vestiti al polpaccio che aspettano sempre qualcosa e qualcuno. Si bevono un gin allungato con l’acqua dentro un bar vuoto e aspettano l’occasione giusta. Per diventare stelle di Hollywood o anche solo di Broadway anche se sanno già di essere state ingannate da un regista mascalzone. Le case di legno con le colonne doriche e lo sguardo su una spiaggia del New England, ma potrebbe essere anche da tutta un’altra parte. Magari l’Oregon. Edward Hopper è un astronauta del tempo e degli spazi. Uno che tiene incollati i suoi personaggi alla sedia ma che li fa muovere come nessun altro. A cavalcare una moto che attraversa gli States da costa a costa. La stessa di Easy Rider. E, anche per questo, sopra c’era un attore che faceva anche lui Hopper di cognome.

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