Corriere della Sera - La Lettura
Conigli di gesso, asini albini: l’Orestea grida
Il capolavoro di Eschilo in scena a Roma, senza la terza parte dove sarebbero dovuti comparire dei veri macachi. Deturpata così una delle migliori regie di Romeo Castellucci, nata 21 anni fa
C’è quel palazzo che sta crollando in via della Farnesina a Roma. Era seduto al tavolo vicino a quello in cui pranzo tutti i giorni. Si chiama Roberto Meddi, è un direttore della fotografia, ha lavorato con Piccioni, Calogero, Pappi Corsicato. Nel 1999 ha fatto un film, Ponte Milvio, di cui esiste solo la copia che ha in casa, copia in celluloide. Meddi ha vinto premi a Montpellier, a Tétouan, è una persona gentile, che affronta il disastro con pazienza. Ma il film è lì, nella casa in cui è nato, non lo può riprendere, potrebbe perderlo, a nessuno è concesso di rientrare.
Racconto questa storia perché nel palazzo ci sono anche due gatti, dei sei che c’erano: quattro sono scomparsi. I due che sono rimasti hanno paura, uno se ne sta acquattato in una scarpa. Solo per loro è consentito ai pompieri l’accesso. Chi non condividerebbe questa licenza? Ma, io penso, anche quel film, anche quel Ponte Milvio è un vivente, anche il film deve essere salvato, noi dovremmo avere la possibilità di vederlo.
Non è consentito per due opposte ragioni: perché la sensibilità nostra per l’animale è cresciuta nel tempo e perché è diminuita quella per ciò che chiamiamo arte, dell’arte ci importa sempre meno. Come è possibile che ventuno anni fa — quando andò in scena per la prima volta — l’Orestea di Romeo Castellucci, che di presenze di animali ne aveva in quantità, non ebbe obiezioni e oggi, ieri, all’Argentina, a poca distanza da via Farnesina, non sia stato consentito mettere in scena il terzo atto perché vi sarebbero dovuti essere dei macachi? Perché è possibile non censurare ma impedire, cancellare, o lasciar morire ciò che, lo ripeto, chiamiamo arte? Se è possibile è perché non capiamo che quell’oggetto caduto in terra ventuno anni fa e che Castellucci (è lui a dirlo) ha raccolto «come un oggetto ignoto, gettato da un uomo sconosciuto», altro non è che una forma del vivente. Meglio, non una forma semplice, ma una sua altissima forma.
L’Orestea, poi! L’Orestea della Socìetas Raffaello Sanzio: uno dei testi estremi del teatro italiano del Novecento. Su questo punto voglio essere chiaro. Da molto tempo, nei confronti degli spettacoli di Castellucci sono critico. Nella sua storia c’è una parabola di creatività ben precisa: da Santa Sofia del 1985 fino a oggi. Il punto più alto è nel 2000, Genesi. In quegli anni ci sono altri due titoli, minori ma significativi: Le favole di Esopo e Buchettino. La presenza di Lewis Carroll e di Alice nell’Orestea di Eschilo mette a fuoco il punto di congiuntura: è l’extratemporale, è il mito, ovvero la tragedia, che incontra la fiaba. Viene detto già nel titolo completo dello spettacolo: Orestea (una commedia organica?). Forse la tragedia non è che una commedia, il ciclo non è concluso dalla terza parte (quelle Eumenidi che non abbiamo potuto vedere) ma dal dramma satiresco, la quarta che sempre manca: caduta a terra e mai da nessuno raccolta. C’è di più. Lo si coglie già nei primi minuti. Il lavoro di Castellucci chiudeva non solo un secolo, ma un’epoca del nostro teatro — quella parte di esperienza che chiamiamo d’avanguardia. Quando nel 1971 Bob Wilson portò a Roma l’opera sua di debutto, Deafman Glance, che tanta influenza ebbe negli anni successivi, avevamo già visto le opere di Mario Ricci, un geniale regista dimenticato. Ma non voglio dimenticare Giancarlo Nanni e Giuliano Vasilicò. Il Pirandello di Memè Perlini è dello stesso anno di Deafman Glance e lì, dietro le quinte, c’era Simone Carella. È tutta una storia che fu chiamata teatro-immagine.
E che cos’è l’Orestea di Castellucci se non un’apoteosi di quella storia, ossia una sua conclusione? Se preferite: una sua messa a morte. Gli anni Novanta del XX secolo sono quelli, da noi, dei cannibali; o di Pulp Fiction. Come non vedere le analogie? Ma non sono anni di decadenza (o della Decadenza) come quelli che avevano chiuso il secolo XIX. Sono anni di orrore — e di Horror: Horror come affacciarsi di una nota satiresca, beffarda. C’era stata la fine della Storia e la storia era ricominciata con la Bosnia, con il Ruanda, con l’Iraq. È questo l’orizzonte in cui oggi possiamo leggere (leggere meglio) l’Orestea dell’Argentina. Non stupisce che Castellucci abbia perso la quasi disumana potenza che s’è di nuovo vista all’opera. Erano venuti meno i testi; ed era venuta meno la critica ai testi. L’invenzione pura è difficile che possa resistere al tempo, non illanguidirsi, non apparire perfino gratuita.
Tutto il contrario è, nell’Orestea, quella scena oscura che si apre davanti ai nostri occhi invasa da un rombo (la musica è di Scott Gibbons). Vi sono i tuoni di una tempesta e vi è il rumore del mare: una sentinella è lì, appesa, oscillante nel vuoto: sta per cadere, non cade perché l’ombrello le dà quel minimo di equilibrio. Appare il Corifeo. È un alto coniglio. Ma è anche il Coniglio di Alice, animale per ec- cellenza tremebondo. Ancor meno forti di lui sono i componenti del coro, tanti piccoli conigli di gesso, tanti uomini-animali: il popolo di ogni tempo: il commento (che essi rappresenterebbero), il pensiero, la poesia, la voce saranno polverizzati a colpi di pistola. Ifigenia appare due volte: bianca, pura, immacolata; e macellata, coperta di sangue. Si doveva partire per Troia, il padre con il coltello l’ha sacrificata. E il padre? Chi è il padre? Agamennone è un down: innocenza e distanza: irraggiungibilità. E tuttavia l’irraggiungibile sarà raggiunto, sarà a sua volta maciullato, diventerà un capretto — sollevato in alto a perpetua memoria, uomo-animale anche lui, che continuerà meccanicamente a respirare: l’aria gli arriva da un tubo nel quale aveva cominciato a soffiare il suo assassino, suo figlio, Oreste.
Egisto, un figuro lugubremente coperto da un nero perizoma bucato all’altezza dei glutei, aveva chiuso le porte, erano apparsi due cavalli, laggiù, nel buio. Ma era apparsa anche Cassandra: chiusa in una teca, grassa, sudata, donna che può solo soffiare, urlare. Lo schermo della teca che la tiene prigioniera si appanna, rende meno udibile quella voce che vuole dire la verità. Perché gli sia possibile mettersi la corona in testa, Egisto è costretto a uscire dal suono, ossia dallo spazio che abusivamente occupava: solleva il sipario trasparente e viene avanti in un improvviso silenzio: egli non ha nulla da dire. Fin qui eravamo nell’Agamennone.
Nelle Coefore, il silenzio regna sovrano: è, io credo, il silenzio di chi si raccoglie prima di compiere un atto di gravità assoluta. Sono Oreste e Pilade: due adolescenti posti di fronte a qualcosa di troppo più alto di loro. Eppure Pilade, magro quanto il compagno, è alto come chi voglia proteggere. Anche quei giovani escono da un mondo fiabesco: Pilade ha in testa un cappello a forma di cono, c’è qui un salto all’indietro, siamo negli anni Trenta della nostra immaginazione: quanti clown, nei quadri italiani di quegli anni!
Dietro Oreste e Pilade compaiono, e un poco stazionano, due asini albini, sono ciò che resta dei neri e possenti cavalli. Essi non producono suono, scomparso il rumore di zoccoli del primo tempo. Ma non c ’è neppure quell’oscurità. La scena è bianca, le pareti sembrano di gesso, di quella pietra porosa che si può vedere in certe case mediterranee. Dal cielo continua a cadere la polvere, è una bianca polvere, è la polvere del tempo, o del numinoso. Il naturale, come tra poco constateremo, era fiaba ed è diventato macchina. È candore ma è anche sangue — niente altro che disordine e sangue. Elettra, grassa come sua madre — anche lei resa opulenta dal tempo e dal privilegio o forma puramente archetipica — accarezza il fratello. Ma forse no, ad accarezzarlo è Pilade. Lo conforta prima che Clitennestra sia messa a morte. Clitennestra: una balena, che tutto divora. L’attore (una macchina — che può solo ricordare, nulla può immaginare) stasera non sarà disturbato dalle Erinni, gli strepitanti, chiassosi macachi. Noi, le Eumenidi non le vedremo. E nella disputa tra un Apollo monco, come ogni statua che si rispetti, e un’Atena in vena di pacificazione, o di perdono (la colpa dell’attore è di raddoppiare, dice Castellucci; le stimmate dell’essere umano — anche se diventato macchinico da fiabesco, o mitico, o celeste che era, dice Aristotele — restano quelle della vergogna d’essere nato ), in questa disputa Oreste avrà, avrebbe avuto, il suo momento di tregua. L’animale che era diventato uomo, l’uomo che era diventato deforme, il deforme che s’era trasformato in macchina, sarebbe per un momento diventato un angelo.
L’Alice di Lewis Carroll entra nella tragedia greca: questo allestimento della Socìetas Raffaello Sanzio chiude l’epoca dell’avanguardia