Corriere della Sera - La Lettura
Arabi e israeliani, il cabaret in forma di danza
Hillel Kogan porta a Ferrara «We Love Arabs», dove ironizza in scena sulle differenze e le inevitabili somiglianze fra i due popoli. «A musulmani e profughi siriani è piaciuto»
«C’è il rischio che pensino che tu sia l’ebreo e io l’arabo. Io marcherò te e tu marcherai me», dice seccato Hillel Kogan al collega Adi Boutrous nello spettacolo We Love Arabs. «Che cosa mi hai scritto sulla fronte?», ribatte quest’ultimo. Hillel: «Come la chiamate… la brioche sulle moschee. È per far capire al pubblico. Tu mi hai disegnato sul petto una stella di David e io ho tracciato sulla tua fronte una croce islamica». Boutrous: «Ah ok. Mah… io sono cristiano». Hillel: «Eh? Tratteremo quest’informazione più tardi». Non è un cabaret yiddish. Sono battute pronunciate in un dialogo dall’humour corrosivo che traccia le coordinate spaziali della coreografia We Love Arabs dell’israeliano Hillel Kogan in arrivo al Comunale di Ferrara il 4 novembre, all’interno di un focus puntato sulla danza israeliana e palestinese. Un muro immaginario che separa i due danzatori, finché qualcosa dal «territorio» vicino non penetra nell’altro. I movimenti dei due si specchiano per trasmettere un’idea di somiglianza, opposti ma uguali, fino a sdoppiarsi come un oggetto con la propria ombra.
Identità, coesistenza, cooperazione, usando l’hummus come simbolo di una tessitura coreografica che rimanda alla liquidità delle relazioni. «Perché l’hummus — dice ancora Kogan nello spettacolo — è il simbolo dell’essere israeliano. E mi sono dimenticato che è arrivato da voi. Lo sai che in Russia e nei ghetti polacchi gli ebrei non mangiavano hummus? Ma ora l’hummus sta cancellando la mia identità e diventa la mia nuova faccia, ed è anche la tua identità e la nostra nuova faccia. Ognuno di noi vuole avere hummus nelle proprie mani ed è difficile. È mio, è tuo. E poi finalmente capiamo che non c’è via d’uscita, come in una spirale. L’unico modo per romperla è introdurre la forma di un fiume da attraversare, passo dopo passo, tu ti prendi cura di me, io di te. Con gentilezza».
Kogan, i suoi testi ricordano quelli del primo Woody Allen, quando recitava da «stand-up comedian» nei locali newyorchesi. Definirebbe il suo lavoro un cabaret danzato?
«Allen è uno dei miei autori preferiti. Ma non saprei definire i miei pezzi “danza” o “teatrodanza”, pur avendo una formazione di teatro. Le mie composizioni hanno a che fare con il mondo della danza, sono commedia, attualità. Non vedo la danza come un suolo sacro, credo nella virtuosità del corpo e nella capacità di ballare e parlare allo stesso tempo. È importante per me mostrare che i danzatori sono esseri umani e non mimi. Abbiamo accettato la connessione storica tra danza e musica. Lentamente i testi del Novecento sono diventati parte del mondo della danza. Una delle mie missioni è permettere alla danza di parlare e di portare in essa testi e poesia».
Benché scritto con tratto leggero, «We Love Arabs» è uno spettacolo politicamente «engagé» in un’arte in cui l’impegno politico si manifesta di rado. Perché nella danza ci sono pochi pezzi politici come, ad esempio, «Il tavolo verde» di Kurt Jooss?
«Forse per il problema del testo. Storicamente e culturalmente, il ruolo delle istanze politiche è sociali è sempre stato giocato dal teatro o dalla letteratura, non dalla musica o dalla pittura, anche se, secondo me, è possibile estrarre contenuti politici da ogni forma d’arte. La danza è tradizionalmente considerata un’ arte astratta come la musica e si concentra su forma, tempo, spazio e movimento, focalizzandosi sull’estetica più che sull’etica, che appartiene al teatro e alla letteratura. Questa è una delle ragioni per cui la danza quando è politica la chiamiamo teatrodanza».
Un mese fa a Torino la compagnia israeliana Batsheva, di cui lei fa parte, ha sollevato le proteste del gruppo filopalestinese Bds che sostiene il boicottaggio di Israele e dei suoi prodotti anche culturali. Il suo tour è sostenuto dal ministero israeliano della Cultura come lo era Batsheva. S’aspetta proteste del Bds?
«Credo che We Love Arabs presenti un altro aspetto di Israele, un’altra cultura. Mostra il lato ebraico bianco del Paese che detiene il potere e guarda gli arabi dall’alto. È una parodia comica, entertainment che contiene però un messaggio molto forte: guardare allo specchio noi stessi e quello che facciamo. Quanto al governo israeliano, sono in disaccordo con il partito di destra del governo. Siamo una democrazia e gli artisti hanno la possibilità di esprimersi con libertà di parola e di creazione. Gli artisti sono i principali ambasciatori di quella parte di Israele che crede nella pace, nella modernità, nella necessità di mettere fine al conflitto. La comunità internazionale dovrebbe abbracciarci perché siamo la sola speranza di cambiamento».
Come reagisce il pubblico a «We Love Arabs»? Lo presenterebbe nei Paesi arabi?
«L’ho portato in molti Paesi e in Israele di fronte a molti tipi differenti di comunità religiose, anche quella araba, ed è stato accettato in modo molto positivo. Alcuni musulmani sono venuti dopo lo show per parlarmi e offrirmi sostegno. Credo che il lavoro sia universale e non riguardi solo ebrei e arabi ma le relazioni umane. In Germania un gruppo di rifugiati siriani è venuto a vedere lo spettacolo e non si è sentito offeso dallo show. Ha girato in Europa e Stati Uniti ma mai in Paesi arabi, spero che un giorno mi invitino. Ma con un passaporto israeliano non ci è concesso di entrare nella maggior parte dei Paesi arabi e musulmani, perché non ci sono relazioni diplomatiche con Israele».
A Ferrara presenterà anche «Obscene Gesture», pezzo irriverente verso Pina Bausch. L’ha portato in Germania dove la memoria della Bausch è venerata?
«È vero, Pina è la santa della danza contemporanea, non solo in Germania, dove non ho ancora portato questo mio “solo”. A Ferrara sarà infatti il debutto internazionale. È una parodia sul teatrodanza, sui testi di teatro nella danza, ed è una parte di un lavoro più lungo e articolato».