Corriere della Sera - La Lettura
Salce, il repubblichino inventato
Sul web molti attribuiscono al regista, un protagonista del cinema italiano del dopoguerra, un’adesione al fascismo di Salò. Non è vero: dal settembre 1943 alla Liberazione fu prigioniero dei nazisti
Il caso più eclatante è Wikipedia, strumento di consultazione rapida tra i più usati sul web, che alla voce «Campo di concentramento di Coltano» colloca Luciano Salce tra gli ex combattenti fascisti di Salò rinchiusi in quella località dagli americani, in compagnia di noti repubblichini come Mirko Tremaglia e Pio Filippani Ronconi. Ma sono numerosi i siti e i blog che attribuiscono al regista del Federale e di Fantozzi una militanza nella Rsi, qualcuno specifica anche «nelle Brigate nere», cioè la milizia di partito del fascismo repubblicano.
Invece no. Non c’è nulla di vero. Nel periodo dal 9 settembre 1943 al 29 aprile 1945 Salce, nato nel 1922, si trovava fra i militari italiani catturati dai tedeschi e internati nel Terzo Reich senza la qualifica ufficiale di prigionieri di guerra. Lungi dall’aderire alla repubblica di Mussolini, gesto che gli avrebbe consentito di recuperare la libertà arruolandosi nelle divisioni di Rodolfo Graziani, scelse di rimanere recluso in condizioni assai difficili.
Tra l’altro i nazisti, per impadronirsi dei suoi denti d’oro, espiantarono a Salce, causandogli danni permanenti, la protesi che gli era stata applicata da ragazzo in seguito a un incidente stradale. Da allora sarebbe stato L’uomo dalla bocca storta, come il figlio Emanuele e Andrea Pergolari intitolarono un documentario dedicato al regista nel 2009, a vent’anni dalla morte. Tutto ciò risulta inequivocabilmente non solo dalla corrispondenza che Luciano tenne dalla Germania con il padre Mario Salce, che s’interruppe nell’estate 1944 dopo un fallito tentativo di fuga dal lager del giovane prigioniero, ma anche dalla vasta massa di documenti esaminata dallo studioso Andrea Maori, che ha scandagliato gli archivi civili e militari, ricavandone una relazione di notevole interesse.
Il foglio matricolare dell’esercito inte- stato a Salce registra le tappe del suo internamento in Germania e in Austria, così come il suo ritorno in Italia al termine del conflitto, il 9 maggio 1945, dopo la fuga dal lager presso Innsbruck dov’era detenuto. Della Rsi e di Coltano non vi è traccia: d’altronde nemmeno i fascisti reduci da quel campo che hanno lasciato delle memorie, come Pietro Ciabattini, citano mai la presenza di Salce tra i loro compagni di prigionia.
Ma allora com’è nata questa leggenda metropolitana? Probabilmente alle origini c’è un libro uscito nel 1978 per le edizioni Ciarrapico, Intellettuali sotto due bandiere, firmato da un dirigente di spicco del Msi, Nino Tripodi. Si tratta, spiega Maori, di una rassegna di testi inneggianti al fascismo scritti sotto il regime da personaggi noti che in seguito avrebbero assunto posizioni ben diverse. Tra di essi l’autore richiama anche una «monografia», una sorta di tesina (al massimo 15 pagine dattiloscritte), presentata da Salce, allora diciannovenne, a un convegno di geopolitica dei Gruppi universitari fascisti (Guf) tenuto a Roma nel novembre 1941.
Tripodi, all’epoca membro della commissione che doveva premiare gli elaborati migliori, era in possesso dello scritto di Salce, ma l’esattezza delle citazioni non si può verificare, perché non ce ne sono altre copie disponibili. Comunque le frasi estrapolate dal parlamentare missino manifestavano un pieno allineamento alla politica del regime, compresa la legislazione razziale. Da notare però che si tratta dell’unico intervento politico di Salce di cui si abbia notizia, mentre i suoi articoli sulla stampa dei Guf trattano di letteratura, cinema e teatro. Tra l’altro la sua recensione del film Süss l’ebreo non contiene commenti antisemiti: pur esprimendo un giudizio estetico positivo sul lavoro del regista Veit Harlan, lo qualifica come una pellicola «di propaganda».
Si può pensare che Salce non abbia prestato attenzione a quella polemica per la scarsa consistenza delle accuse di Tripodi, basate su un solo scritto giovanile. Ma più in generale, ricorda il figlio Emanuele, il regista non amava evocare il passato: «Era molto riservato, aveva difficoltà a esternare i suoi sentimenti. Per esempio non parlò mai della deportazione in Germania e dei venti mesi passati nei lager. Solo una volta vi fece un accenno scherzoso, in uno sketch televisivo con Lelio Luttazzi. Bisogna tener conto che aveva avuto un’infanzia difficile: sua madre era morta di febbre puerperale a breve distanza dal parto e in seguito mio nonno lo aveva mandato in un collegio gestito dai gesuiti, dove lo andava a trovare di rado. La sua scelta successiva di abbandonare gli studi di Giurisprudenza e iscriversi all’Accademia di arte drammatica (dove conobbe Vittorio Gassman e Luigi Squarzina) per fare l’attore venne vista in famiglia come una rivolta, che provocò ulteriori conflitti».
Però Luciano aveva un’arma dalla sua parte, il senso dell’umorismo che avrebbe espresso in modo magistrale nella sua carriera artistica: «Emerge già una vena drammatica e ironica — nota Emanuele Salce — nelle lettere che scrive a suo padre dal collegio. Non mi stupisce il distacco che mantenne rispetto alla questione del suo presunto passato fascista». D’altronde il regista morì nel 1989, quando eravamo ben lontani dallo sviluppo di internet come moltiplicatore delle più varie dicerie. Ma forse nell’ostinazione con cui gli si attribuisce una militanza tra gli alleati di coloro che lo tennero prigioniero Luciano avrebbe visto un esempio di come il grottesco sia sempre in agguato, anche quando si rievocano vicende tragiche.