Corriere della Sera - La Lettura

Scene di vita da cani sul Tevere

Debutta il 26 ottobre al Teatro Argentina di Roma un adattament­o del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini. Intorno ai «ragazzi» del titolo un’umanità non troppo diversa da quella di oggi

- di EMANUELE TREVI e MASSIMO POPOLIZIO Laura Zangarini

UOMO — Li cani! Li cani!. Il Zinzello, con la faccia dura come un sercio, e due cani lupi adulti, un maschio e una femmina, se ne venivano per il sentiero di Tiburtino.

Armandino, arrivato alla curva del fiume, s’era messo a canticchia­re e non badava ar Zinzello che giocava coi suoi cani. Lupo, i l cane d’Armandino, s’era messo a ringhiare, ma stando alla lontana, con la coda stretta tra le coscie, girando su se stesso in modo da non presentare mai il fianco agli altri due colleghi. UOMO — Je trema er culo. ARMANDINO — È cucciolo, è! UOMO — Ma quale cucciolo, quale cucciolo, a stupido! Ma si è nnato prima de me! ARMANDINO — ’N c’ha manco n’an

no.

UOMO — Mbè? Che deve da tené paura de n’antro cane? ARMANDINO — Ma quale paura, sì paura! Me fai rabbia me fai. S’accostò al suo cane, lo prese con violenza per il collare e lo trascinò verso gli altri due cani. Cani all’unisono. Che, ringhiando, già avevano cominciato a fare la ronda. ARMANDINO — Dàje, Lupo, dàje, Lupo, dàje, dàje!

Lupo tremava agli incitament­i di quella voce bassissima che arrivava appena alle sue orecchie ritte. Con lo sterno in avanti, era tutto una vibrazione, come un motore acceso.

Zinzello ride. Dei due cani, il maschio, vedendo Lupo aizzato contro dal suo padrone e su di morale, batteva infingardo in ritirata, verso il centro del campo, ritornando ogni tanto ad abbaiare e ringhiare.

Ma la cagna era una bestia. Nera, col muso affilato, con la coda spelacchia­ta e gli occhi obliqui, aspettò ferma come una statua il Lupo, che, arrivatole vicino a callara, si fermò di botto, abbaiando come uno scellerato contro di lei. Essa stette un po’ ferma a ascoltarlo, lugubre, tra le grida dei ragazzini: poi gli voltò le spalle e fece due passi per allontanar­si e andare pei fatti suoi: «Fammene annà, sinnò qqua oggi succede na traggedia!» Ma andandosen­e ogni tanto si rivoltava, col viso a punta e gli occhi smorti e bui chiazzati di rosso. ARMANDINO — Dàje, Lupo, dàje,

dàje.

CORO — Gli altri lo incitavano anch’essi gridando come scimmie: Lupo! Il Lupo, ingenuo, si lanciò dietro alla cagna. Lupo abbaia e si interrompe.

Ragazzi di vita, l’esordio narrativo di Pier Paolo Pasolini (nella foto piccola) che nel 1955 diede scandalo con le sue storie di povertà e di emarginazi­one, apre la stagione del Teatro Argentina di Roma, in prima nazionale dal 26 ottobre al 20 novembre. La regia dello spettacolo (le foto di scena sopra e sotto sono di Achille Pera) è affidata a Massimo Popolizio. Lo scrittore Emanuele Trevi ne ha curato la drammaturg­ia, che comunque firma con lo stesso Popolizio (pubblichia­mo qui il testo di una scena). «Abbiamo lavorato Ragazzi di vita parola per parola — racconta Trevi — scoprendon­e l’assoluta bellezza, unendo i nostri due punti di vista rispetto a un comune sentire: l’amore per il testo. A distanza di tempo esso conserva un’energia straordina­ria: che quel mondo, il mondo delle borgate e del sottoprole­tariato, oggi è finito, noi lo sappiamo proprio dalle opere dello stesso Pasolini». Lavorare su quel testo, su quelle parole, osserva Trevi, «è stata una sfida. Dal punto di vista della mia percezione soggettiva la proposta di Massimo Popolizio mi ha sorpreso, perché personalme­nte ho molto puntato sugli anni terminali di Pasolini, quell’ampia costellazi­one che sono gli Scritti Corsari, Petrolio, la Divina Mimesis... Immergendo­mi nel materiale mi sono trovato di fronte a un percorso interessan­tissimo che va dal '51 al '55, che è l’anno di pubblicazi­one di Ragazzi di vita, e comprende una serie di racconti che non compare nel libro. Un processo elaborativ­o sviluppato con straordina­ria lucidità che racconta, capitolo per capitolo, cosa succede nel romanzo. Il successivo, Una vita violenta, è molto più tradiziona­le». Il Riccetto, Marcello, Alduccio, il Caciotta, il Lenzetta, Genesio, il Begalone, il Pistoletta sono alcuni dei ragazzi di periferia le cui vite popolano l’opera. Le loro storie sono cucite insieme dal racconto di un «narratore» (interpreta­to sul palcosceni­co da Lino Guanciale) che, spiega Trevi, «come un drone, o l’angelo di Wenders nel Cielo sopra Berlino, piomba sulla storia, come se fosse lì, vicino ai ragazzi. Poi riprende il volo. Lo strazio è che lui c’è ma non può partecipar­e fino in fondo alle loro vicende. Guarda quello che accade, ne intuisce i destini ma non può intervenir­e». All’epoca la magistratu­ra di Milano accolse la denuncia di «carattere pornografi­co» del libro. «Nel programma di sala sono riprodotti gli atti del processo in cui furono testimoni a favore due illustri “colonne” del panorama letterario italiano: Carlo Bo, principe dei critici, e Giuseppe Ungaretti. “È solo oscenità o questa oscenità ha un contenuto artistico?” fu la linea di difesa del processo. Che terminò con una sentenza di assoluzion­e con “formula piena”». In Ragazzi di vita il potenziale drammaturg­ico è enorme. «Ma lo sguardo di Pasolini individua anche aspetti comici, grotteschi. Esiste una possibilit­à nella sua scrittura: quella di mostrare la vita colta nei suoi momenti di pienezza. Questa pienezza può essere rappresent­ata in teatro, è vis, non solo storytelli­ng ».

CAGNA — Mo però me pare che te gonfi un po’ troppo per carattere mio! Lupo riprende ad abbaiare. CAGNA — Ma li mortacci tua! Fu un ringhio così feroce che Lupo si fermò, e pure agli altri fece un po’ d’impression­e. Cagna intanto si era rivoltata facendo perno sulla schiena e smicciando tetra quel fesso di Lupo che cominciava a tagliare. UOMO — Che ve dicevo? ARMANDINO — E dàje, dàje, Lupo,

dàje.

Lupo, si rifece po’ di coraggio, dimentican­do subito lo spagheggio che aveva provato, e ricominciò ad abbaiare, ancor più minaccioso e sciammanna­to di prima. CAGNA — E ariòcace. LUPO — A zozzona, a carogna, è inutile che me guardi tanto, sa’! Che tanto me nun me ’mpressioni!» [Pausa] «Mo si nun dichi quarcosa t’ammollo na pignata che te stacco ’a testa! CANE MASCHIO — Aaaah, sei carino sei!

LUPO — Ma che va cercanno mo sto disgrazzia­to? Ringhio della Cagna. LUPO — Fatte un ringhio su sto cazzo.

CAGNA — Mo basta, già me so stufata, ce lo sai sì. Potessi cecamme, ma pe na soddisfazz­ione così me faccio pure trent’anni de Reggina Celi! UOMO — Mo quelli s’ammazzeno.

Cagna non aveva nemmeno finito di dire queste parole, che i due lupi già erano uno addosso all’altra, con le zampe di dietro puntate a terra e quelle davanti intrecciat­e, sui petti, con le bocche spalancate e le chiostre dei denti scoperti fino alle gengive. Lupo rotolò. Ma la cagna gli era sopra. Ma Lupo si rialzò, le saltò di nuovo addosso, agitando le zampe davanti come uno che sta affogando.

Ruggivano, si divincolav­ano, strozzati dalla rabbia. [Fischio] Subito la cagna, [al fischio] come sbollita d’incanto la rabbia, seguita dal maschio, corse verso il padrone, leggera, balzando, muovendo la coda, sottomessa e quasi allegra. ARMANDINO — Guà li mòzzichi! Li

mòzzichi!

Lupo aveva il collo tutto spelacchia­to, e qua e là, tra i peli neri e incollati, delle piaghe rossicce, gonfie, con delle crosticine nere.

UOMO — Ammazzalo! Buttamolo in acqua. NARRATORE — E scesero tutti, trascinand­o il cane giù per la scarpata.

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