Corriere della Sera - La Lettura
Un cowboy nero nel West L’America è nata anche così
Joe Lansdale dice: ok, è l’ora di riscrivere la storia della prateria Perché gli Stati Uniti sono stati costruiti anche da afroamericani
Noi abbiamo questa vocazione: di andare Là Fuori, di metterci in cammino, e quando non ci saranno più confini guarderemo al cielo. Ma i protagonisti non possono essere sempre gli stessi
Nat Love A un certo punto mi capitò per le mani l’autobiografia di Nat, ex schiavo, ma anche cowboy, e tante altre cose, per esempio facchino Calamity Jane La storia di Nat era costruita come quella di tanti altri, Billy the Kid o Jasse James o Calamity: molta verità, molta fantasia John Ford C’era qualche romanzo della frontiera, qualche film come «I dannati e gli eroi», ma era sempre il punto di vista dei bianchi
Là Fuori è dove noi come nazione, gli Stati Uniti d’America, andiamo sempre: avanti, lontano e oltre. È questo che il Vecchio West ha rappresentato per tantissime persone nei primi giorni degli Stati Uniti, e il fatto che la nostra geografia abbia ormai raggiunto i propri limiti sarà il motivo per cui ci rivolgeremo all’universo, che a sua volta diventerà il nuovo Là Fuori. Dobbiamo averlo, capite, quel posto che si trova sempre oltre, un posto dove, come diceva Daniel Boone, possiamo assicurarci un po’ di «spazio vitale». Bisogno, questo, che sembriamo avere nel Dna.
Forse è un’eco di quando eravamo cacciatori-raccoglitori e, anche se alla fine siamo diventati stanziali, nel cuore abbiamo ancora quel desiderio di metterci in cammino, per quanto a volte si esprima soltanto in una storia o in una pia illusione. Ci piace credere di poter saltare in sella e cavalcare nelle vaste distese di una qualche frontiera, foss’anche emotiva.
Il Vecchio West un tempo era un luogo di grandi opportunità. Può darsi che lo sia ancora, ma in un senso ben diverso rispetto a quando i nostri avi partivano per l’Ovest a piedi, a cavallo, sui carri, poi in treno e infine, nel primo Novecento, in auto o in aereo. Andavano alla ventura, in cerca della loro fetta di libertà. Viaggiavano in un mondo di alte montagne, deserti aridi e interminabili, alberi torreggianti, fiumi larghi e canyon profondi, per non parlare di una popolazione nativa giustamente scontenta.
Durante la Grande Depressione, con la siccità e un vento carico di terra sabbiosa e sterile che infuriava quasi ininterrottamente sul Midwest e sul Texas settentrionale, l’impulso di mettersi in viaggio per trovare un posto capace di offrire più opportunità e magari più benessere non fu altro se non un’espansione del concetto di frontiera, il bisogno di un West mitico dove le circostanze favorevoli abbondavano, il tempo era bello e il lavoro non mancava — e neanche i soldi. Per vivere questo sogno bastavano la volontà e il progetto di diventare qualcosa di più, la volontà di compiere un azzardo; se possedevi la volontà, quella terra magica ti avrebbe offerto una dorata ricompensa di agi e felicità. Da vecchio, avresti potuto perderti in un pacifico, splendido oblio sotto morbide lenzuola di seta, con una mano artigliata intorno a una mazzetta di banconote e l’altra all’atto di proprietà della tua villa.
Certo, il Là Fuori conteneva già esseri umani indigeni, ma l’egocentrica prospettiva europea — avanzare e conquistare — li riteneva inferiori, esattamente come i neri d’America. Tutti loro andavano ritenuti inferiori, per avere la scusa di trattarli come se non fossero esseri umani ma oggetti di proprietà: animali, addirittura piante. Diversamente, se ci fosse stato un qualsiasi riconoscimento della loro umanità, un qualsiasi tentativo di considerarli sullo stesso livello dei bianchi, un atteggiamento del genere sarebbe stato ingiustificabile.
Com’è ovvio, considerata questa prospettiva egocentrica, per molti anni i contributi dei non-europei passarono sotto silenzio o furono a dir poco minimizzati. Prendete l’esperienza afroamericana nel Vecchio West, un capitolo quasi del tutto ignorato da libri e film sino a poco tempo fa, e anche adesso la rappresentazione che ne viene fatta c’entra ben poco con la vera lotta dei neri americani — o dei nativi americani, se è per questo: in pratica si tratta di un mondo immaginario che ignora, quando non nega, che quelle limitazioni siano mai esistite. Dopo la Guerra civile, dopo l’abolizione della schiavitù, una moltitudine di ex schiavi si trasferì a Ovest per inseguire i propri sogni. Una casa per la famiglia, un impiego liberamente scelto, una paga per un lavoro ben fatto, e in molti casi l’occasione di togliersi di dosso non solo le catene concrete della schiavitù, ma quelle emotive e mentali di chi era stato marchiato dal padrone come intellettualmente e fisicamente inferiore. Questa storia è stata raccontata di rado, e gli accenni in tal senso, per quanto sinceri, sono stati irregolari e spesso mal articolati.
Ma si poteva dire una cosa, del West. Verso i non-bianchi era più aperto dell’Est, o sicuramente del profondo Sud. Là Fuori era più probabile che una persona di colore potesse essere, e fosse, accettata in base alle sue capacità e non alla sua carnagione. Non sto suggerendo che fosse tutto rose e fiori, laggiù a Ovest, ma era un contesto molto diverso da quello cui erano abituate le minoranze. La verità è che su tre o quattro cowboy uno era nero, messicano, nativo o un misto, quindi è incredibile che sia stato scritto o girato così poco su un aspetto tanto prezioso dell’esperienza nel West.
Ma per adesso non parliamone, e affrontiamo un’altra questione. Nel Vecchio West non era insolito che i pionieri raccontassero storie campate in aria a beneficio di quelli dell’Est. Dal loro punto di vista non significava mentire, perlomeno non nel senso tradizionale del termine. A differenza di pagliacci moderni come Donnie Trump, loro avevano un luccichio divertito negli occhi e partivano dal pre- supposto che l’interlocutore sapesse che stavano «tirando la coperta», espressione che indica il tentativo di ricavare da una cosa più di quanto sia possibile, per esempio appunto tirare una coperta per renderla più grossa, con l’unico risultato di strapparla. Quelli dell’Est se la bevevano, credevano perfino ad alcuni dei racconti più stravaganti, ma anche chi sapeva che dovevano contenere una bella porzione di scemenze se li godeva. Erano racconti che iniziavano dalle origini, quando la frontiera era ancora e sempre a Est dell’oceano Atlantico. Un tempo era lì che cominciava il West, e man mano che esploratori e opportunisti si muovevano verso occidente la definizione di «andare a Ovest» si ampliò fino a raggiungere l’oceano Pacifico. Per conquistare il loro angolino di paradiso, gli avventurieri affrontavano il viaggio con tutto l’entusiasmo di un bambino sguinzagliato in un negozio di dolciumi con l’ordine di prendere tutto quello che può e divorarlo in un lampo. Sopportarono avversità immense a causa delle condizioni geografiche e atmosferiche, ma in qualche modo diedero alla terra la forma che preferivano e, nel bene o nel male, la cambiarono per sempre. Nel corso di quella grande avven- tura, per divertire se stessi e gli altri sotto le stelle, seduti intorno a un fuoco scoppiettante, raccontavano delle storie. A volte vere, spesso inventate, e ancora più spesso un po’ vere e un po’ inventate. Una rissa con un gruppuscolo di uomini, o un attacco indiano, di solito si moltiplicava e infiocchettava fino a diventare un episodio assurdo ed eroico come qualunque storia farcita di prodi e dèi greci.
Tra quelli dell’Est c’era chi si avventurava nelle sconfinate distese dell’America occidentale e arrivava addirittura a metterle per iscritto, quelle storie, aggiungendo di proprio pugno un abbellimento qua e là, e fu l’inizio del fenomeno che sarebbe diventato noto con il nome di dime novel — ovvero dei romanzetti economici che, di fatto, sarebbero stati i precursori dei pulp e digest magazine, oltre che dei tascabili. Tutti gli eroi di dime novel erano bianchi.
Per puro caso, negli anni Settanta mi capitò per le mani l’autobiografia di Nat Love, un ex schiavo. Il libro racconta le sue esperienze non solo di schiavo ma anche di cowboy, più altre cose. Nat lo scrisse nel periodo in cui lavorava su un treno come facchino. Senza dubbio la storia della sua vita è parzialmente costruita, ma non si discosta dalle biografie ufficiali di personaggi famosi come Buffalo Bill, Wild Bill Hickok, Calamity Jane, Wyatt Earp, Billy the Kid, Jesse James eccetera. Era consuetudine scrivere una storia allo stesso modo in cui la si raccontava a un pivellino intorno a un falò. Si dava il massimo, vivacizzando i propri racconti con fatti e miti, tirando la coperta in nome dell’intrattenimento. Quella di Nat era una storia così, e mi spinse ad approfondire le vicende dei neri americani. Scoprii che i film che avevo visto, con soldati bianchi che accorrevano in aiuto di coloni bianchi tormentati da indiani o banditi, non erano accuratissimi, anche e soprattutto perché accantonavano l’esperienza dei neri. In realtà, a sobbarcarsi il carico maggiore della lotta contro gli indiani, come la si definiva allora, furono truppe di neri, il Nono e il Decimo cavalleria, che proteggevano gli insediamenti, davano la caccia a Geronimo e Pancho Villa, e più avanti avrebbero partecipato alla battaglia della collina di San Juan.
Nelle mie ricerche, oltre che soldati trovai pistoleri neri, sceriffi neri, e uomini e donne neri qualunque che diedero una mano a «civilizzare» il Vecchio West. Che costruirono edifici, scavarono pozzi; avevano famiglia e vivevano la loro vita. Pensai: ma perché questa storia non è stata raccontata? Continuai le mie ricerche finché non sentii di saperne parecchio, sui neri americani. Qua e là spuntava qualche romanzo nuovo, e c’era stato il film di John Ford, I dannati e gli eroi, ma anche quella era una vicenda raccontata dal punto di vista dei bianchi, e alla fin fine era un bianco a sal-
vare il sergente nero dalla prigione e dalla condanna a morte. Nemmeno John Ford aveva saputo andare fino in fondo e farne la storia di un intrepido soldato nero che, nonostante fosse stato mal giudicato e dovesse essere giustiziato, riusciva a compiere un atto di coraggio e a dimostrare la propria innocenza. Un film del genere avrebbe contraddetto le leggi Jim Crow, e al Sud non avrebbe aiutato il botteghino.
Tutto questo mi fece venire voglia di scrivere una storia proprio sui neri nel Vecchio West. Volevo scrivere una colossale dime novel basata sulla verità, un romanzo storico che utilizzasse tanto la storia con la S maiuscola quanto l’iperbole di un pioniere, qualcosa che unisse azione, amore e ben più di un tocco di precisione storica. Qualcosa che attribuisse a dei personaggi neri ruoli diversi da quelli tradizionali di cuochi, domestiche e lustrascarpe. Volevo che personaggi come Nat Love e Bass Reeves diventassero famosi come gli altri. Volevo mitizzarli esattamente com’erano stati mitizzati gli eroi bianchi, ma di nuovo, con un bel po’ di verità e di storia.
Il primo tentativo di vendere la mia versione dopata della storia di Nat all’inizio degli anni Ottanta ottenne questa risposta: «I neri non leggono, e i bianchi non vogliono leggere un libro sui neri». Il mio progetto, almeno per il momento, si arenò. Passarono dieci anni e parlai a un altro editore dell’eventualità di scrivere il romanzo dei miei sogni; stavolta la risposta fu più politically correct, e dunque ancora peggiore, almeno per me: «Non sappiamo quale pubblico avremmo per una cosa del genere». E poi, non molto tempo fa, chiesi al mio editor, Joshua Kendall della Mulholland Books, che cosa ne pensasse della mia idea. Secondo lui era pazzesca, e finalmente era arrivata la mia occasione. Nella storia vera, cioè nella sua autobiografia, Nat ignora i pregiudizi che pure dovevano esistere a quell’epoca e si concentra sulla sua grande bravura di cowboy. Ho preso un sacco di eventi dal libro, ma più che altro ho preso il suo atteggiamento, e nella tradizione di quei vecchi distillatori di racconti intorno al fuoco ho rimpolpato la sua storia con frammenti di vita di altri neri dell’Ovest; però ho cercato di mantenere al centro della mia versione l’evidente piacere che Nat provava a essere un cowboy portentoso e un pioniere.
Grazie alle mie ricerche ho appreso che le capacità dei cowboy godevano di enorme rispetto, essendo un ingrediente base della sopravvivenza quotidiana, quindi può darsi che Nat non abbia conosciuto i pregiudizi nella stessa misura di cowboy neri meno abili. Un cavallo imbizzarrito non ne sa niente di colore, razza o credo religioso, e poteva essere un ottimo livellatore sociale quando si trattava di riconoscere talento e personalità. Un altro episodio narrato da Nat che mi ha ispirato è la sua vittoria a una sorta di rodeo a Deadwood. L’ho trasformato in una gara di tiro: credo che sia più immediatamente comprensibile, e saper sparare era pur sempre una delle doti fondamentali per chi stava nel West. Una volta vinto il rodeo, Nat dice di essersi guadagnato il nome di «Deadwood Dick» e arriva addirittura a suggerire che la serie di dime novel con protagonista appunto Deadwood Dick, «il cavaliere nero delle praterie», fosse basata su di lui. Al riguardo ho i miei dubbi, ma capisco bene perché si fosse fissato su quell’idea, e naturalmente può anche darsi che qualcosa di fondato ci sia. È idea diffusa che Bass Reeves, uno sceriffo di colore che si incontra nel mio romanzo, abbia ispirato un classico personaggio televisivo e radiofonico come il Cavaliere solitario. Quindi, chi può dirlo di sicuro? Io l’ho preso per vero e l’ho usato come rampa di lancio per la storia.
Nella mia versione, Nat decide di mettere subito le cose in chiaro, spiega che le dime novel scritte su di lui non sono precise, dopodiché racconta una vicenda che è al contempo plausibile e improbabile. Si potrebbe dire che Nat non sia un narratore affidabile, ma a me piace considerarlo uno che, nel bel mezzo della narrazione, riesce non solo a tessere una trama avvincente, ma anche a rivelare qualcosa di quell’epoca e degli afroamericani che la vivevano.
Adesso che ho un mercato per lui, il romanzo l’ho scritto in fretta e — questo è interessante — per lo più in Italia mentre promuovevo altri libri. Non riuscivo a smettere di scriverlo. A ogni pausa tra una presentazione e l’altra, mi precipitavo in camera per cacciar fuori il portatile e scrivere. Gli ultimi tocchi glieli ho dati quando sono tornato in Texas. La vita di Nat, la sua voce, o per lo meno la voce che ho creato in base alla sua autobiografia e alle avventure di altre persone di colore, per me sono diventate reali. Finito il romanzo ho provato un grande sollievo, e per qualche mese mi sono sentito come se avessi scritto tutto ciò che avevo sempre voluto scrivere. Erano più di trent’anni che mi preparavo a raccontare questa storia, e adesso che lo avevo fatto provavo una specie di calma felice e allo stesso tempo un inspiegabile senso di vuoto. Avevo raggiunto una pietra miliare, e come gli esploratori che si erano ritrovati in riva al Pacifico, guardavo davanti a me con l’impressione di non avere nessun altro posto dove andare.
Sono contentissimo di aver scritto la storia di Nat. Non so se sia il mio romanzo migliore, ma è il mio preferito, almeno finora. Mi fa un piacere enorme che i lettori italiani abbiano la possibilità di andare a Ovest, e ovunque, insieme a Nat. Spero che vi divertiate quanto me a cavalcare con lui. Cosa ancora più importante, però, spero di aver scritto un libro che aiuti i lettori a comprendere i contributi che i neri hanno dato nell’Ovest, e forse, chissà, in futuro mi occuperò delle esperienze di altre minoranze che hanno collaborato alla creazione di quelli che noi conosciamo come gli Stati Uniti d’America, una terra che amo con tutto il cuore.
In sella, e via al galoppo.