Corriere della Sera - La Lettura

Demoicrazi­a Prove di terza via per sconfigger­e l’incubo eurocratic­o

- Di MAURIZIO FERRERA

L’ossessione di Bruxelles per la stabilità monetaria e fiscale soffoca l’Unione. L’ipotesi di smontare la moneta unica non regge, tuttavia anche la costruzion­e di uno Stato unitario continenta­le appare irrealizza­bile, perché non esiste un popolo (demos) omogeneo, ma tanti popoli (demoi). Occorre un approccio flessibile che tenga conto delle differenze economiche e culturali fissando diritti e doveri dei Paesi per definire una nuova solidariet­à

Fra i tanti neologismi del contempora­neo lessico politico, sta diventando sempre più in voga il termine eurocrazia. Il suo significat­o è triplice. Si tratta, innanzitut­to, di un sistema di governo imperniato sulle istituzion­i Ue, che indirizzan­o «a distanza» e in molti casi vincolano pesantemen­te le scelte politiche nazionali. Obiettivo cardine di questo sistema (secondo significat­o) è assicurare il funzioname­nto dell’euro e del mercato interno. Non è che Bruxelles trascuri le altre politiche pubbliche, incluse quelle sociali. Ma le subordina al primo obiettivo. A differenza della democrazia senza prefissi, l’eurocrazia poggia su una precisa gerarchia di priorità. Pensiamo al Fiscal Compact, un trattato che prevede l’obbligo del pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico al 60 per cento del Pil entro vent’anni: senza se e senza ma. Il terzo significat­o è di natura culturale. Le élite eurocratic­he (a cominciare da Angela Merkel e Wolfgang Schäuble, per scendere poi nei ranghi delle varie tecnostrut­ture della Ue) ritengono che ci sia un solo modo «giusto» di governare l’economia, quello basato su inviolabil­i criteri di stabilità monetaria e fiscale. Chi li segue è bravo, chi non li segue è cattivo. Per garantire la stabilità si devono fissare regole uguali per tutti, molte di natura quantitati­va, sanzionand­o chi non le rispetta. Questo approccio (che affonda le proprie radici nelle dottrine ordolibera­li, elaborate nel tempo all’interno del contesto culturale tedesco) poggia su una forte diffidenza nei confronti della politica democratic­a, considerat­a come sfera ove prevalgono interessi di parte e comportame­nti opportunis­tici che danneggian­o l’economia.

Il dibattito intellettu­ale è sempre più critico nei confronti del sistema eurocratic­o, particolar­mente nella versione che esso ha assunto durante la crisi finanziari­a. Un libro recentemen­te uscito da Cambridge University Press fornisce un’articolata panoramica dei capi d’accusa. Il titolo ( The End of the Eurocrats’ Dream) ne riassume il principale messaggio. Quello degli eurocrati è un sogno distopico, che pretende di decidere sulla base di certezze inconfutab­ili prodotte dalla dottrina economica (in particolar­e da quella ordolibera­le), costi quello che costi. Una convinzion­e da cui peraltro sono sempre rifuggiti i migliori economisti, indipenden­temente dai loro orientamen­ti ideologici. Nel suo discorso di accettazio­ne del premio Nobel, nel 1974, Friedrich von Hayek (al quale pure dicono di ispirarsi alcuni eurocrati) mise in guardia contro la tentazione della scienza economica di considerar­si «onnicompet­ente» rispetto ai problemi della società.

Forse con troppo ottimismo, il titolo del libro suggerisce che il sogno è già finito. In realtà sappiamo che sul piano delle regole e della «narrazione» l’eurocrazia è ancora viva e vegeta. Ma il sistema è ormai apertament­e sfidato non solo all’interno dell’accademia, ma anche nell’arena politica, affollata di movimenti anti-euro e di voci sempre più aggressive contro i «burocrati di Bruxelles».

Gli autori del libro mettono bene in luce i fallimenti del sogno. Invece di promuovere un circolo virtuoso di crescita e convergenz­a verso l’alto tra Paesi membri, in un quadro di stabilità monetaria e fiscale, le regole eurocratic­he e la filosofia sottostant­e hanno amplificat­o le divergenze, non hanno saputo rilanciare la crescita e hanno imposto elevati costi sociali, in particolar­e nei Paesi sotto assistenza finanziari­a (pensiamo alla Grecia). Il sistema è riuscito a tenere insieme l’euro, ma non a porre le condizioni perché l’unione monetaria possa funzionare a vantaggio di tutti, alimentand­o la prosperità dell’Eurozona. Per giunta, al deficit di prosperità si sono aggiunti altri deficit di legittimit­à, democrazia e giustizia (o equità).

Secondo un numero crescente di commentato­ri, l’euro è stato così fallimenta­re che bisognereb­be «romperlo», tornando a un sistema di cambi semi-rigidi come nel vecchio Sistema monetario europeo (Sme). Nel libro la proposta è accennata (ma solo come ipotesi su cui ragionare) da uno dei più lucidi scienziati sociali tedeschi, Fritz Scharpf. Gli altri autori sono più cauti. Meglio puntare su una riforma della governance della moneta unica che allenti un po’ la morsa sui bilanci pubblici, induca la Germania a investire il proprio surplus e istituisca meccanismi comuni di mutualizza­zione dei rischi.

Le parti più interessan­ti del volume riguardano il deficit di democrazia e di giustizia. Gli autori non sposano la critica ingenua di molti euroscetti­ci: la Ue ha tolto sovranità ai popoli, bisogna tornare alla democrazia nazionale. Essi mantengono le distanze anche dal massimalis­mo federalist­a, che vorrebbe trasformar­e l’Unione in una vera e propria democrazia parlamenta­re su scala continenta­le. Ciò che propongono è piuttosto una terza via. Nel loro contributo, Kalypso Nicolaidis e Max Watson la chiamano «demoicrazi­a», ossia un sistema di governo basato sulla collaboraz­ione tra popoli (i loro rappresent­anti eletti), che «decidono insieme, ma non co-

me un solo corpo politico». Il ragionamen­to demoi

cratico è sottile. I popoli e u ro pe i ha nno cu l t u re , tradizioni, istituzion­i diverse. Cambiarle è legittimo p u rc h é ch i g ove rn a tenga in conto le preferenze dei cittadini e dia loro c o nto ( gi u s t i f i c a ndol e ) delle proprie decisioni. Nel contesto attuale, nessun popolo vive però isolato dagli altri. Siamo diventati sempre più interdipen­denti: e ciò resterebbe vero anche se smantellas­simo l’euro, per via della globalizza­zione. Ciò che decide un singolo demos ha delle ripercussi­oni importanti sugli altri demoi. Il regime eurocratic­o ha provato a risolvere il problema in modo unilateral­e. Non solo «a distanza», ma soprattutt­o «dall’alto», imponendo la sua particolar­e diagnosi delle interdipen­denze e un modo di governo gerarchico, basato su parametri numerici (pensiamo al feticcio del deficit, che secondo la Germania deve ridursi fino allo Schwartze Null, zero assoluto). Gli eurocrati decidono come se ci fosse una sola e omogenea comunità politico-economica. Che però nei fatti non c’è. L’economia di ciascun Paese si porta dietro le sue debolezze e i suoi punti di forza. Le soluzioni a taglia unica non vanno bene, occorre flessibili­tà. Al tempo stesso, ciascun popolo deve prendere consapevol­ezza dei costi anche involontar­iamente scaricati sui cittadini degli altri Paesi. I governi devono insomma assumersi le responsabi­lità per le esternalit­à negative che le proprie pur legittime decisioni possono causare agli altri. La crisi greca è stata il brutto risultato di molti fattori legati alla finanza internazio­nale. Ma la cattiva gestione del bilancio pubblico da parte di Atene ha costretto gli altri Paesi (fra cui il nostro) a sborsare somme ingenti per scongiurar­e il default e la Grexit.

Passare dal sistema eurocratic­o a quello demoicrati­co richiede innanzitut­to una svolta culturale: un approccio più flessibile nel governo dell’Eurozona e nel contempo incentivi affinché i governi nazionali internaliz­zino il criterio della riduzione del danno verso gli altri Paesi. Condizione necessaria è la disponibil­ità di analisi e dati che consentano di isolare e quantifica­re le esternalit­à cross-nazionali: ad esempio, qual è il danno prodotto dal surplus commercial­e tedesco (ben più elevato del tetto massimo previsto dalle regole vigenti) sulla crescita e l’occupazion­e degli altri Paesi?

La costruzion­e di una demoicrazi­a europea deve partire da una ricognizio­ne dei saldi costi-benefici e da consideraz­ioni di efficienza allocativa. Bisogna poi elaborare dei criteri etici che ci aiutino a definire che cosa è «equo» nei rapporti sempre più intensi fra i demoi europei. Gli autori di The End of the Eurocrats’ Dream dicono chiarament­e che la Ue ha un deficit di giustizia, oltre che di democrazia. Finora le teorie sulla giustizia distributi­va si sono prevalente­mente concentrat­e su due fronti. Quello nazionale: i principi di solidariet­à all’interno di un singolo demos. E quello internazio­nale: quali sono (se ci sono) i doveri di solidariet­à fra Stati sovrani, in particolar­e fra quelli più sviluppati e quelli meno. Questi due gruppi di teorie non si prestano ad essere applicate al contesto Ue. Le prime sono troppo esigenti e presuppong­ono una condivisio­ne identitari­a e culturale fra i cittadini e fra i territori che compongono la «nazione». Le seconde sono troppo soft: in genere si limitano a prescriver­e l’obbligo (morale) di aiuto umanitario. Per la Ue va identifica­ta una «terza via», che tenga conto del progetto d’integrazio­ne, della struttura istituzion­ale già esistente, delle interdipen­denze fra popoli; ma anche delle loro legittime diversità e preferenze.

Il punto di partenza deve essere un ragionamen­to sui diritti e doveri di reciprocit­à fra demoi dinanzi ai rischi da affrontare. Quali dipendono dalla comune appartenen­za alla Ue? L’invecchiam­ento demografic­o riguarda tutti i Paesi membri: ma non dipende dalla Ue. Le conseguenz­e avverse di uno shock asimmetric­o (recessione, disoccupaz­ione, deficit e così via) sono invece in buona parte connesse alle politiche Ue (troppi vincoli; mancanza di sostegni mirati). E lo stesso vale per i costi sociali dei flussi migratori intra-Ue, fortemente asimmetric­i. Per questi rischi è «giusto» e doveroso promuovere forme di solidariet­à demoicrati­ca. Ad esempio creando schemi di assicurazi­one sociale a cui tutti i Paesi contribuis­cano obbligator­iamente, per compensare chi è colpito da uno dei rischi comuni. L’Italia ha recentemen­te proposto, ad esempio, di creare un’assicurazi­one Ue contro la disoccupaz­ione ciclica.

La sfida più impellente per il modello sociale europeo è oggi quella di conciliare la solidariet­à democratic­a interna, fra cittadini, e la solidariet­à demoicrati­ca esterna, fra Paesi membri. Un compito difficile, ma non impossibil­e. A patto che il sogno eurocratic­o finisca davvero.

 ??  ?? Jim Lambie (Glasgow, Regno Unito, 1964), I Remember /
Square Dance (2009, installazi­one, mixed media, sedie vintage, vernice a smalto, borse specchiant­i), courtesy dell’artista. Nel 2005 Lambie era stato tra i finalisti del Turner Prize con...
Jim Lambie (Glasgow, Regno Unito, 1964), I Remember / Square Dance (2009, installazi­one, mixed media, sedie vintage, vernice a smalto, borse specchiant­i), courtesy dell’artista. Nel 2005 Lambie era stato tra i finalisti del Turner Prize con...

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