Corriere della Sera - La Lettura
Da Tiepolo a se stesso: l’arte secondo Frank Stella
«Che senso avrebbe rifare nuovamente la pittura come è stata fatta per secoli? Ma non mi piace la parola reinventare: si è già abbastanza fortunati se si inventa qualcosa. Conta solo quello che si fa, quel che si impara e quel che ciò implica. E si va ava
È uno degli ultimi grandi maestri, famoso anche per il suo carattere aspro e severo Ma in questo dialogo con «la Lettura» confida: «Se non fossi un romantico non avrei dipinto»
Proverbiale il suo carattere: aspro e severo. Non è facile contattarlo. Persone a lui vicine avvertono «la Lettura»: si sottrarrà a ogni «invasione». Gli inviamo una mail. Inizia così un difficile dialogo a distanza. Cominciano ad arrivare le risposte in maniera random: spesso sono telegrafiche; talvolta rivelano fastidio, irritazione. Eppure, sono come frammenti dell’involontaria ed erratica autobiografia intellettuale di quello che — insieme con il suo amico-rivale Jasper Johns — è tra gli ultimi giganti dell’arte del nostro tempo.
Frank Stella, dunque. Nato nel 1936 a Malden (Massachusetts), origini italiane, nel 1959 partecipa — ha appena 23 anni — a una mostra collettiva ospitata dal Moma di New York. 1950-1954: frequenta la Phillips Academy di Andover dove, sotto la guida di Patrick Morgan, si accosta all’astrattismo. 1954-1958: si iscrive alla Princeton University, dove studia storia dell’arte con William Seitz e scopre de Kooning e Kline, dei quali ammira la «totalità» dei gesti. 1958: la personale di Johns presso la galleria di Leo Castelli è come un’illuminazione. Confesserà: «La cosa che mi colpì era il modo di affrontare il soggetto, l’idea delle strisce-ritmo, della ripetizione». A quel periodo risale il trasferimento a New York, nel Lower East Side. Stella guadagna facendo l’imbianchino: utilizzerà la stessa vernice industriale per dipingere.
È la fine del 1958 quando quello che è considerato l’erede di Malevic si misura con il ciclo dei Black Paintings, caratterizzati da semplificazione del disegno, riduzione della varietà cromatica al nero, ricorso a strisce parallele ai margini del quadro o parallele alla diagonale. 1960: gli Aluminum Paintings (esposti nella prima mostra organizzata da Castelli), nei quali le strutture dei supporti dettano le impaginazioni delle opere. Stella si limita a «sottrarre» piccole porzioni alle sue tele: ad esempio, gli angoli. In seguito — nei Copper Pain
tings — la sagomatura si farà più estrema, assumendo l’identità di alcune lettere (U,L, T) o alcune figure (croce, zigzag). È la premessa agli Irregular Polygons (iniziati nel 1965), che presentano poligoni irregolari, rettangoli con triangoli isosceli, pentagoni con parallelogrammi; e ai Protactor, che ci consegnano semicerchi combinati con arcobaleni, ventagli, strisce, cerchi concentrici dai colori accesi.
La consacrazione arriva nel 1970. Stella — 34 anni — è il più giovane artista a essere celebrato con una personale al Moma, tempio dell’arte statunitense. Infine, dal 1970 la grammatica di questo calvinista della forma diviene più complessa, per abbandonarsi ad ardite soluzioni gestuali e cromatiche. Alcune serie:
Polish Village (1970-73), Exotic Birds (197678), Comes and Pillars (fine anni Ottanta).
Per cogliere il senso di questo itinerario talvolta contraddittorio, potremmo muovere da Caravaggio, cui Stella dedica illuminanti testi critici (raccolti in Su Caravaggio, edito in Italia da Abscondita). In particolare, elogia la capacità con cui il maestro delle Sette opere di
Misericordia proietta la sensazione di un luogo «tangibile, mobile, che si estende dall’azione, o fuori di essa». Egli è stato il miglior «compositore spaziale» della storia dell’arte. Ma, lungi dal ricorrere ad artifici accademici, Caravaggio ha decostruito norme e consuetu- dini, confondendo le luci ed eliminando le tracce di paesaggio e di architettura. I suoi quadri «ci dicono cosa dovrebbe essere la pittura». Dinanzi a noi, è la sapienza di chi «comunica l’ansia e l’urgenza implicite nei meccanismi dell’espressione pittorica, riuscendo al tempo stesso a far compiere a questi stessi meccanismi miracoli assoluti». Al cospetto di tale potenza, Stella osserva: «Credo che lo spazio (…) fisico, reale di Caravaggio abbia molto da dire per far uscire l’astrazione dalla triste condizione in cui si trova, essendo palesemente intrappolata nella bidimensionalità».
In questa lucida analisi è il significato profondo della ricerca di Stella. Che, sulle orme di quel lontano modello, sembra oscillare tra tensione verso la purezza e volontà di dar voce a inquietudini segrete.
Innanzitutto, il desiderio di semplificare. Partecipe del tardo-modernismo, ma anche padre del minimalismo, Stella compie una riduzione dell’oggetto-immagine a pure strutture percettive. Riconduce i suoi «testi» a unità linguistiche finite e costanti, prive di rinvii denotativi. In sintonia con le poetiche costruttiviste, non si pone in ascolto di espressioni interiori. Rifiuta evocazioni, metafore, analogie. Da materialista, fonda i suoi esercizi su una drammaturgia di linee rigide e di colori di dura evidenza, negando ogni apertura verso l’esterno. In polemica con Johns, insegue, come egli stesso ha dichiarato, «qualcosa di stabile che non fosse la registrazione continua della sensibilità individuale». Da razionalista, attinge solo a ciò che è necessario. Deciso su-
peramento di ogni simbolismo, le sue sono costruzioni anti-relazionali, che parlano solo di se stesse e delle materie di cui sono fatte. Vuole mostrare la qualità della pittura svelando come si dipinge. Consacra, perciò, le sue proposte alla divinità della simmetria, allestendo pattern regolari. Da positivista, afferma: «Ciò che vedi è ciò che vedi».
Questo bisogno di ritornare all’abc dell’arte è attraversato da dubbi e da esitazioni. Non di rado Stella sceglie di contaminare il suo purismo con fascinazioni letterarie ( Moby-Dick di Melville) e con rimandi realistici (nei quadri eseguiti tra il 1964 e il 1965 ispirati alle città del Marocco o in quelli in memoria delle sinagoghe polacche distrutte dai nazisti). Convinto che nessuna opera è mai completamente astratta poiché, come ha ricordato Robert Hughes, «tutta l’arte, in un modo o nell’altro, è situata nel mondo e spera di agire da catalizzatore tra l’io e il non-io».
Inoltre, sulle orme delle danze di Matisse e di Delaunay, Stella — sin dai «goniometri» — pensa i suoi dipinti come grandi narrazioni dinamiche e decorative. Sperimenta impetuose accelerazioni. Esplora i territori della libertà immaginaria e della disinvoltura stilistica. Sfida le regole «custodite» dalle sue stesse opere, portandosi verso spazi linguistici ibridi, nei quali pittura e scultura si fondono. Modella iconografie senza icone: quasi-barocche, distorte, eccessive, esuberanti. Autentici pastiche post-storici, che ripudiano ogni impersonale logica compositiva e trasgrediscono il rigore cartesiano non senza slancio istrionico.
Questa filosofia è già racchiusa in una controversa opera giovanile di Stella, Die Fahne Hoch! (1959), il cui titolo riprende l’inno ufficiale del nazismo. Forse, un riferimento storico più formale che tematico. Un monumentale black painting, simile a uno stendardo smaltato: cruciforme come una svastica, nero come l’uniforme.
Chiediamo a Stella quali ragioni l’abbiano portato a concepire quel lavoro «politico». La
rispostaNon si permettaè tranchant:di farmi«Lei mi altre sta domande offendendo. di questo tipo».
«Die Fahne Hoch!» ci riporta ai suoi esordi. Lei è stato tra i più precoci talenti dell’arte americana del dopoguerra. A 23 anni si tiene la sua prima personale nella galleria di Castelli, a 34 la retrospettiva al Moma (curata da William Rubin). Cosa ricorda di quegli episodi? «Poco. Sono trascorsi troppi anni. Difficile ricordare quel tempo».
Cruciale, negli anni giovanili, è stato l’incontro con il «soggettivismo» di Pollock. Molti critici hanno sostenuto che le fotografie di Hans Namuth in cui si documenta l’atto dell’«action painter» abbiano inciso fortemente su di lei.
«Le fotografie di Namuth che ritraevano Pollock in azione hanno dato agli artisti di tutte le generazioni successive la licenza di essere più liberi». Che rapporto ha avuto con Johns e con Warhol?
«Conosco Jasper, conoscevo Andy. Loro parlano da sé».
Sin dalla fine degli anni Cinquanta, è stato animato dalla volontà di reinventare la pittura, portandosi progressivamente verso la tridimensionalità della pittura-scultura.
«Che senso avrebbe rifare nuovamente la pittura come è stata fatta per secoli? Ma non mi piace la parola reinventare: si è già abbastanza fortunati se si inventa qualcosa. Conta solo quello che si fa, quel che si impara e quel che ciò implica. E si va avanti. La pittura? Una superficie piana con strati di vernice: niente di più. Le sculture? Dipinti che si sorreggono per conto proprio».
I suoi lavori — soprattutto quelli degli anni Sessanta — nascondono una tensione profondamente analitica, imponendosi, osservò lo storico dell’arte Robert Rosenblum, con una «fissità ultraterrena, ipnotica, come fossero emblemi immutabili». «La descrizione di qualsiasi opera d’arte finisce per rivelarsi laboriosa, inutile».
Una sua frase tautologica — «ciò che vedi è ciò che vedi» — è diventata un manifesto per molti artisti minimalisti e concettuali.
«È così. Un quadro è quello che è: un quadro, appunto. Un oggetto, non una finestra aperta verso qualcosa: non stai guardando un paesaggio, non stai guardando un ritratto, ma stai guardando “solo” un dipinto».
Ancora Rosenblum ricordava come, dal ciclo «Protactor», lei abbia voluto dar voce a una «frenesia travolgente», arrivando a incrinare ordine e stabilità. Ha compiuto così il trionfo di un autentico delirio visivo.
«Il mio è un caos interessante. Da quando ero ragazzo considero la struttura molto importante in un’opera: non sono capace di abbandonarla. I miei dipinti cercano continuamente di trovare un modo per “organizzarsi”. Controllati dal pattern, rimangono stabili. Sono come poligoni regolari. L’arte è tutta una questione di equilibrio. Perdere l’equilibrio è rischioso».
La bellezza è tra i miti che gli artisti del XX secolo hanno voluto profanare. Cos’è rimasto di questa categoria estetica oggi?
«Anche se gli artisti del XX secolo spesso sostengono il contrario, nessuno vuole realizzare opere brutte». Ci parlerebbe della bellezza dei «Black Paintings», che l’hanno resa celebre?
«C’è una grande differenza tra l’essere conosciuti e l’essere famosi: i dipinti neri non mi hanno reso ben conosciuto, mi hanno reso famoso. La gente ha visto i Black Paintings attraverso le riproduzioni, che sono brutali, falsificano: non fotografano la verità. La gente mi chiede ancora perché ho smesso di fare quadri neri, ma è come chiedere a Kodak perché ha smesso di usare la pellicola. Si va avanti, il mondo va avanti. È difficile non seguire questo flusso». Alla base dei suoi lavori, non vi è mai l’improvvisazione. Vi si coglie calcolo, progetto.
«Mi piacciono i momenti in cui i ritmi si rallentano. Mi attengo sempre a un piano. Negli ultimi vent’anni, ho sempre preparato disegni per tutto quello che ho fatto».