Corriere della Sera - La Lettura

La vera identità della Francia sta nei dubbi sulla sua identità

- dal nostro corrispond­ente a Parigi STEFANO MONTEFIORI @Stef_Montefiori

Raphaël Glucksmann vive attualment­e in Francia un momento di grazia: il suo libro Notre France. Dire et aimer ce que nous sommes (Allary), storia dimenticat­a dalla Francia umanista e cosmopolit­a, è in testa alle vendite e lui è conteso da radio e tv in prima serata. Il che è una notizia, perché quegli spazi di solito sono occupati dagli intellettu­ali neo-reazionari. Da Eric Zemmour a Alain Finkielkra­ut, pur con qualità e argomenti molto diversi, le voci dominanti sono quelle che rimpiangon­o una presunta età d’oro della Francia, un mitico «prima» in cui le cose andavano meglio perché la sovranità del Paese, l’autorità degli insegnanti e l’omogeneità della nazione erano rispettate.

Glucksmann, 36 anni, figlio del filosofo André scomparso il 10 novembre 2015, racconta invece di una Francia che non è mai stata pura come la vorrebbero i suoi cantori nazionalis­ti, un popolo «che non sarà mai d’accordo su chi siamo», e che proprio per questo è da sempre aperto all’Europa e al mondo.

In un dibattito, pochi giorni fa, il premier Manuel Valls e il presidente della Commission­e Jean-Claude Juncker hanno convenuto che bisogna smetterla di parlare di Stati Uniti d’Europa e di federalism­o, perché le opinioni pubbliche non vogliono saperne.

«Mi sembra un errore fondamenta­le. Gli antieurope­isti offrono l’orizzonte del ritorno alla nazione sovrana, una visione coerente capace di entusiasma­re qualcuno, e noi europeisti neghiamo a noi stessi il diritto di mostrare il cammino. Impossibil­e fare l’Europa, sia pure a tappe, se non sappiamo dove andiamo».

Perché questo atteggiame­nto rinunciata­rio?

«I nostri leader partono dalla constatazi­one che l’Europa in questo momento non è popolare. Ma è ovvio, perché nessuno ha più il coraggio di difenderla davvero. Tutti sono paralizzat­i dai sondaggi, tranne Marine Le Pen o Nigel Farage: loro sanno quel che vogliono».

Come è nato il suo libro?

«Dalla constatazi­one che la battaglia delle idee la stanno vincendo i reazionari, perché i progressis­ti al massimo provano a fare fact checking del discorso degli avversari, senza opporne uno autonomo. Così la sconfitta è assicurata perché, in alternativ­a a una visione che io considero sbagliata ma coerente, le élite non sanno proporre nulla».

Lei ci prova.

«Cerco di mostrare che una Francia aperta, europeista, che difende i diritti dell’uomo e non considera il resto del mondo come una minaccia, fa parte del racconto nazionale. L’Unione europea è una chance nella storia francese, la globalizza­zione è nata anche in Francia, accogliere ventimila migranti non è la fine della nostra identità, ma anzi un modo per rivitalizz­arla. Partendo da quali fonti possiamo dire questo? Mi sono immerso nel passato per cercare di fare un discorso francese che non sia passatista».

E che cos’ha scoperto?

«Che, per esempio, l’idea di un Paese slegato dal sangue e dall’etnia, ma fondato invece su un’adesione politica e giuridica risale a ben prima della Rivoluzion­e francese e della Repubblica. Il 3 luglio 1315 il re Luigi X proclama che “il nostro regno è quello dei Franchi”, e “franco”, nel doppio significat­o di appartenen­te a un popolo e di libero, è chiunque tocchi il suolo della Francia. Poi, se nei secoli la Francia ha avuto un ruolo nel mondo, è grazie a Voltaire, Cartesio o Rabelais più che a Versailles e a Luigi XIV. Se siamo mai stati grandi, è grazie a una cultura che ammette e anzi fa tesoro del turbamento identitari­o».

Anche per quanto riguarda la lingua francese, totem dei neo-reazionari?

«Dire corner invece che coup de pied de coin durante una partita di calcio sarebbe il segno della decadenza e dell’assenza di rispetto per la cultura del nostro Paese. Eppure la lingua francese è stata imposta con un’ordinanza del re Francesco I nel 1539, negli anni in cui il più grande scrittore dell’epoca, Rabelais, prendeva a prestito centinaia di parole dalle lingue morte, dalle lingue regionali e da quelle dei vicini. L’inglese dell’epoca era l’italiano, percepito dai puristi come la lingua più minacciosa perché più influente. Grazie a Rabelais parole come spadassin o boussole, derivate dall’italiano, sono entrate nella lingua francese. Non sappiamo esattament­e che cosa siamo e non lo abbiamo mai saputo. Meglio così. Vuol dire che possiamo essere tutto».

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