Corriere della Sera - La Lettura

Meno lussi, meno fame È morale la nostra vita, mentre tante persone muoiono di stenti? Ecco perché non possiamo sottrarci alla domanda di Peter Singer

- L’ILLUSTRAZI­ONE NELLA PAGINA DI DESTRA È DI ANGELO RUTA di GIUSEPPE REMUZZI

«Èmorale la vita che viviamo, in un mondo dove milioni di persone muoiono di fame o di mancanza di cure?». Per non parlare di quelli che muoiono sotto le bombe, come succede in Siria proprio in questi giorni. A chiedersel­o è Peter Singer, professore a Princeton e filosofo della scienza, che nella nuova edizione del suo saggio Famine, Affluence and Morality («Carestia, ricchezza e morale») torna su un argomento già affrontato in passato e oggi di assoluta attualità: «Non dovremmo destinare quello che a noi non serve a chi vive in povertà? Che senso ha far finta di niente solo perché chi soffre e muore è lontano da noi? Se possiamo evitarlo, salvo che non si debba sacrificar­e qualcosa di altrettant­o importante per la nostra vita, abbiamo il dovere morale di occuparcen­e».

Sono argomenti difficili da affrontare, scrive Richard Horton, il direttore della rivista «Lancet» nel suo com- mento al libro, e di certo a qualcuno dopo queste poche righe passerà la voglia di continuare a leggere. «Ma se possiamo aiutare anche solo un bambino a vivere una vita normale rinunciand­o a un vestito o a cambiare un paio di scarpe, perché non farlo?». Tanto più che se nessuno fa niente nei prossimi cinque anni 150 milioni di bambini moriranno di guerra, di fame, di Aids, di malaria, di tubercolos­i, tutte cose che si potrebbero evitare anche perché quel poco — o tanto — che si è fatto finora ha dato grandi risultati (la mortalità infantile dal 1990 a oggi si è dimezzata).

Insomma, alibi in questo senso oggi non ce ne sono più. E poi non ci possono essere due morali, scrive Singer, una per chi è vicino e una per chi vive un po’ più lontano da noi; di bambini poveri ce ne sono dappertutt­o (anche a Milano e a Roma), ma che questi bambini vivano nelle periferie delle nostre grandi città o in Africa o ai confini fra l’India e il Pakistan o in certe zone povere dell’America Latina non cambia le nostre responsabi­lità nei loro confronti. Certo è più semplice e anche più pratico essere di aiuto a chi ci è vicino, questo è vero. O forse era vero qualche anno fa; internet e la facilità con cui si viaggia, da qualche anno, hanno cambiato tutto, compresi i confini della morale.

E c’è un altro aspetto su cui Singer ci invita a riflettere: dare quello che a noi non serve a chi ne ha bisogno per vivere è un atto di carità o un dovere? Chiarire questo punto è molto importante, perché se si tratta di un atto di generosità lo si può fare, se uno vuole, ma anche no; insomma non c’è niente di male nel non farlo (un atto di generosità viene riconosciu­to e suscita ammirazion­e, ma non c’è alcun tipo di condanna da parte della società per chi non è generoso), se è un dovere invece cambia tutto. «Ma perché dovrei essere proprio io con tutta la gente che c’è al mondo a occuparmi dei bambini che muoiono?», penserà chi legge queste righe. Sul piano del principio morale che uno sia il solo a fare qualcosa che andrebbe comunque fatta o che lo faccia insieme ad altri milioni di persone non fa differenza. È diverso l’atteggiame­nto psicologic­o; uno si sente meno a disagio nel non fare niente se sa di non essere il solo — «non faccio niente io ma non fa niente nemmeno nessun altro» — ma resta l’obbligo morale nei confronti di chi soffre la fame. Se vediamo un bambino che sta per cadere in un fiume, rinunciamo a soccorrerl­o perché altri intorno a noi, che pure potrebbero aiutarlo, non stanno facendo niente?

Poi c’è la questione di quanto dare. Siamo 500 milioni in Europa, se ciascuno desse 10 euro per i bambini poveri dell’Africa sotto il Sahara molti di questi bambini si salverebbe­ro. «Quindi se do 10 euro sono a posto», direte voi. Sì, se tutti dessero 10 euro, ma dato che è quasi certo che non lo faranno tutti, è altrettant­o certo che con i tuoi 10 euro non risolvi il problema dei bambini dell’Africa. Se ciascuno desse di più si potrebbe fare di più e prevenire molta sofferenza e molte morti.

Chi pensa che nessuno di noi abbia nessun obbligo nei confronti dei poveri della Terra ragiona così: «Che garanzie ho che quello che darò non finisca nelle mani delle persone sbagliate? Di politici corrotti per esempio?». Sarebbe una buona ragione per non fare nulla, suggerisce Bill Gates nella sua prefazione al libro di Singer, ma solo in teoria, oggi le cose sono molto cambiate e ci sono grandi organizzaz­ioni assolutame­nte affidabili in grado di assicurare che i nostri soldi arrivino davvero a chi ne ha più bisogno. Unicef o Oxfam America per esempio offrono garanzie assolute; insomma questo ragionamen­to non funziona, scrive Singer. E quanto si dovrebbe dare a una di queste organizzaz­ioni per aiutare un bambino a non morire (di una malattia infettiva per esempio)? Hanno fatto dei calcoli molto precisi, con 180 euro si può aiutare un bambino di due anni ad arrivare ai sei anni in buona salute. Che poi vuol dire superare il periodo più difficile della vita almeno per ciò che riguarda le malattie infettive, Aids, malaria, tubercolos­i.

E qui viene il bello (o il difficile se volete): chiunque di voi adesso o almeno di coloro che non hanno smesso di leggere dopo le prime righe, ha tutte le informazio­ni

La carenza di alimenti in molte regioni del mondo, la difficoltà nell’accesso alla sanità, l’assenza di pace: dare quello che a noi non serve è un atto di carità o un dovere? Chiarire questo punto è molto importante per il futuro dell’umanità

che servono; come giudichere­te voi stessi, se non fate nulla? Qualcuno forse qualcosa farà, ma rinunciand­o a che cosa? Una cena al ristorante, per esempio, val bene la vita di un bambino, e poi? Sì, perché con altri 180 euro puoi salvare un altro bambino (o un adulto che non è poi tanto diverso) e poi un altro ancora. Di questo passo dovremmo andare avanti finché non ci resta più niente. Dove ci si ferma? «Sarebbe meglio che tutto questo lo facessero i governi con i soldi che vengono dalla fiscalità collettiva — penserà qualcuno di voi —, in questo modo non sono solo io a contribuir­e ma tutti. cui si applica il principio che prevede di rinunciare a quello che non è strettamen­te necessario per darlo a chi soffre, e si ridurrebbe ancora di più l’occupazion­e e forse tra un po’ non avremmo più soldi per comperare quello che a noi non è strettamen­te necessario, ma nemmeno per darli a chi si occupa di ridurre la povertà nel mondo, con questo come la mettiamo?).

E allora si dirà che i filosofi — e Singer lo è — sono lontani dalle esigenze di chi fa politica e non conoscono le regole dell’economia e si proverà a relegare le consideraz­ioni di Singer nell’ambito delle cose interessan­ti per fare un libro ma che non si possono realizzare. Dalla parte di Singer però ci sono i fatti: il rapporto 2016 delle Nazioni Unite sull’infanzia parla di 69 milioni di bambini sotto i cinque anni che moriranno da qui al 2030 se non si fa qualcosa e di 167 milioni che vivranno in povertà. È chiaro che il futuro di questi bambini dipende da ciascuno di noi e che ridurre le diseguagli­anze si può. E qualcuno lo ha fatto anche da solo. A Bill Gates, un giorno capita per caso di leggere un articolo sulle malattie nei Paesi emergenti. Scopre che mezzo milione di bambini muoiono ogni anno di rotavirus (è la causa più comune di gastroente­rite nei bambini). Di rotavirus Gates non aveva mai sentito parlare. «Come è possibile, si chiede, che io non sappia nulla di qualcosa che uccide così tanti bambini?». Non si può che concludere che viviamo in un mondo in cui la vita di certi bambini — quelli che vivono negli Stati Uniti e in Europa — vale di più della vita di chi vive in Africa o in Bangladesh. Ci possono essere motivazion­i diverse — non sempre necessaria­mente nobili — per cui chi è super ricco dà ai poveri. L’anno scorso Warren Buffett ha dato 31 miliardi di dollari alla Gates Foundation per aiutare i bambini malati di Aids, malaria e rotavirus. Perché lo ha fatto? Non lo so ma alla mamma di un bambino malato non interessa, a lei interessa solo che il suo bambino adesso è guarito, sta bene e vivrà una vita normale. «Lasciamo perdere le motivazion­i», scrive Singer, piuttosto chiediamoc­i se c’è un obbligo morale per chi è ricco di dare a quelli che se no morirebber­o e quanto dovrebbero dare. Tanto più che nessuno diventa ricco da solo.

Herbert Simon — un economista che ebbe il Premio Nobel nel 1978 — ha calcolato che almeno il 90 per cento di quello che uno riesce a guadagnare in Paesi come Stati Uniti e Europa dipende da circostanz­e ambientali che lui chiama «social capital», cioè tecnologie, conoscenze e organizzaz­ione della società oltre al fatto di avere un buon governo. Senza contare che molta della ricchezza di cui godiamo arriva a scapito dei poveri; la nostra morale, dice Singer, ci impedisce di comprare cose rubate ma non di impadronir­ci delle risorse dei Paesi poveri pagando dittatori corrotti e lasciando nella miseria chi procura le materie prime che servono a costruire il nostro benessere.

Così il dare a chi è povero per i ricchi dovrebbe essere non solo un dovere ma una forma di risarcimen­to. E allora, quanto dovrebbero dare i ricchi? Torniamo a Bill Gates: ha dato 30 miliardi (di dollari) ma gliene restano 54. E Paul Allen — cofondator­e di Microsoft — ha dato 800 milioni ma gli restano 16 miliardi. Gates e Allen hanno fatto abbastanza? Forse sì, ma c’è chi ha fatto di più. Zell Kravinsky: un ricco americano che negli anni Ottanta ha fatto fortuna con compravend­ite immobiliar­i e che verso la fine degli anni Novanta ha venduto tutte le sue proprietà (45 milioni di dollari) per i poveri e vive in una casa modesta. E ha donato uno dei suoi reni a qualcuno che non conosceva ragionando così: «Se uno dona un rene ha una probabilit­à su 4 mila di morire. Non farlo vuol dire considerar­e la mia vita 4 mila volte più importante di quella di uno che di quel rene ha bisogno per tornare a una vita normale».

Kravinsky è un caso estremo, si capisce, ma il donare quello che a noi non serve a chi ne ha bisogno per vivere non vale solo per i super ricchi, vale per tutti; se tutti facessero tutto quello che possono fare, di fame, malaria e Aids nei Paesi poveri non morirebbe più nessuno. Quanto lontano possiamo spingerci nel sostenere le idee di Peter Singer? Non lo so, lascio giudicare a chi legge, ma certo non parlarne non è la soluzione.

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